Un blog sul cinema. E tutto il resto

lunedì 30 giugno 2008

[cinema] E venne il giorno. O poco ci manca


Per me è arrivato. Finalmente sono riuscita a vedere il nuovo di Shyamalan, “The happening” (“E venne il giorno” è la solita odiosa traduzione italiana). 
Avendone sentito parlare (da molti) piuttosto male, come sempre mi accade ero ancora più incuriosita. La prima impressione è stata che questo film fosse il compimento naturale di “The village” e di “Lady in the water”.
Il cineasta indiano - soprattutto in queste tre pellicole - ha ampiamente dimostrato il suo interesse per la comunità, per le masse di persone accomunate da qualcosa
che si trovano a dover affrontare, combattere e interpretare l’intrusione di un elemento esterno.
In “The happening” la comunità è costituita dall’intera popolazione umana e ciò che deve fronteggiare è una natura che, stanca dell’aggressione dell’uomo, si ribella portando lo sterminio.
Shyamalan descrive con grande ironia la ribellione di madre natura che in modo bizzarro e apparentemente metodico quanto non decodificabile da scienza, politica o sociologia, sembra aver deciso di distruggere il genere umano, partendo (e via a possibili spiegazioni da talk show) dal nord est degli States.
La cifra grottesca del film si incarna nel protagonista Elliot, docente di scienze che cerca in ogni modo una spiegazione e poi la salvezza per la sua famiglia, mentre il cardine dell’intero costrutto narrativo è senz’altro l’idea di falso. 
Dunque Natura (naturale) versus Falso (manipolato oltre ogni limite dall’uomo).
Il Falso è presente in tutti i momenti di questa opera ecologista ed eco-logica. Il vento mortale parte sempre da un parco (Il parco per eccellenza Central Park all’inizio ma anche un parco di Parigi alla fine) che altro non è che il tentativo di impiantare un po’ di natura dentro una città che di naturale non ha nulla (quindi doppio falso); gli uomini quando vengono colpiti dal vento immobilizzatore restano pietrificati come statue (quindi finti uomini); la famiglia protagonista è in realtà una finta famiglia (la bambina non è loro figlia ma il surrogato di quella che non si decidono ad avere); per non parlare della scelta degli attori e dei personaggi (falsi) che paiono usciti da una fiction.
Tutto ciò - e molto altro - fa pensare però che la fine non sia poi così tragica, che forse una brezza mortale e distruttiva possa porre fine a un pianeta ormai insopportabilmente finto e consunto a favore della nascita di una nuova umanità (insomma, forse siamo proprio alla frutta). 
C’è da pensarci. Prima che arrivi il giorno, possibilmente.

martedì 24 giugno 2008

[cinema] Ozu, Tokyo e Wenders. Il gesto cristallizzato del/nel cinema


Non sono ancora riuscita a vedere “E venne il giorno”, ma ce la farò! Nel frattempo oggi mi è capitato di rivedere in dvd “Tokyo-ga” di Wenders, un film-documentario che è un omaggio al grande regista Ozu ma allo stesso tempo è anche una sorta di caccia: all’immagine e all’essenza di una cultura.
Premesso che a mio parere Wenders è un buon regista di documentari, non altrettanto di altri generi, Tokyo-ga mi ha colpito per un motivo soprattutto.
Wenders, alla ricerca di quel Giappone filmato nel corso della sua carriera da Ozu e che pare non esserci più, ci mostra quanto il nostro sguardo - inteso come di noi contemporanei, soprattutto occidentali - sia incapace di vedere in modo “puro”, non mediato cioè dalle miriadi di immagini nelle quali siamo immersi.
Il documentario verte interamente su questa idea del vedere in modo mediato (mediatico?) e, potremmo dire in un certo modo, trasposto. Il regista parla di una altro regista e lo fa mostrando (in apertura e chiusura) le immagini di un suo film che guarda caso si intitola “Viaggio a Tokyo”.
Ozu viene narrato attraverso le parole del suo attore preferito e del suo direttore della fotografia, i treni presenti in ogni suo film sono rievocati dalle moderne metro che ne sono un’immagine futurista, mentre l’America arriva in Giappone attraverso la musica e le mode (i ragazzi che ballano vestiti da teddy boys riproducendo pedissequamente i movimenti visti al cinema e in tv) e dalla televisione, ormai ombelico del mondo per tutti a tutte le latitudini, come dichiara esplicitamente lo stesso regista.
Per tutto il film egli si (e ci) chiede se sia possibile ritrovare quel mondo descritto da Ozu, se si possano avere immagini trasparenti e pure come quelle che Herzog (che compare nel documentario) dichiara di cercare in tutti i modi e a tutti i costi in ogni film, anche salendo a 8000 metri di quota con la cinepresa se necessario.
L'impresa pare impossibile ma in realtà l’identità di una cultura - che per i giapponesi è forse espressa nell’arte della forma e della composizione - riesce ad emergere in qualche modo.
Nonostante l’invasione dell’America e del moderno, ciò che resiste è il gesto come simbolo di una identità che sopravvive; se è vero che si vedono gli abitanti di Tokyo frastornati da Disneyland e bersagliati dai talk show, si salva però qualcosa che va letto come una sorta di “resistenza”. Mentre giocano un assurdo golf sui tetti dei grattacieli non badano che la pallina vada in buca ma si concentrano sul movimento per colpirla, così come alla faccia del fast food, perdono ore a creare copie esatte in cera (da esporre in vetrina) dei piatti che i ristoranti cucinano. 
E in questo contesto, il gesto ostinato di un bambino che non vuole camminare e si ribella alla madre risulta vitale e liberatorio.

mercoledì 18 giugno 2008

[cinema/suono] Acusmatiche immersioni. Ascoltare il cinema


Ancora non sono riuscita a vedere il nuovo Shyamalan, ma ho deciso che lo farò lunedì, caschi il mondo... Nel frattempo però mi è capitato di vedere in dvd “Domino”, pellicola del 2005 firmata da Tony Scott. 
A parte il fatto che non mi è dispiaciuto - anzi l’ho trovato niente male, forse perché mi aspettavo una videoclippata e basta - la colonna sonora davvero tosta mi ha colpita e fatto riflettere su una cosa che in realtà mi gira in testa da tempo; credo che la svolta più importante degli ultimi tempi (anni) per il cinema non riguardi l’immagine ma piuttosto il suono. Dopo il passaggio al digitale, nella visione del film non è accaduto nulla di epocale; il prossimo passo sarà probabilmente l’ologramma.
Per quanto concerne il suono invece, l’arrivo del dolby (e quindi il dts, le 5 poi le 6 casse, etc) ha cambiato la fruizione del film stesso.
Il suono (diegetico, extradiegetico, on, off) è stato sempre fondamentale nella creazione di un’opera cinematografica: da una qualsiasi pellicola dell’insuperato Kubrick le cui musiche restano indimenticabili a Sergio Leone che girava sulle partiture di Morricone a Peckinpah che ha inventato ex novo suoni inesistenti nella realtà, a film più recenti come “Traffic” dove i suoni ovattati e rarefatti contribuiscono non poco all’atmosfera della storia o “Non è un paese per vecchi” che esclude la musica dalla colonna sonora creando così un impatto forte e preciso.
Ma l’ascolto in dolby, l’essere immersi nel suono che proviene da fonti e punti diversi, ci ha posto in una nuova condizione, regalandoci secondo me la vera tridimensionalità. 
Nel suono noi siamo immersi, non possiamo scegliere di non sentire (a meno di non tapparci le orecchie), mentre per vedere dobbiamo guardare, per toccare dobbiamo avvicinarci all’oggetto etc. 
Se è vero che il senso elettivo del cinema è la vista (la classica dicotomia sguardo/visione), il suono è assolutamente rilevante. Fate una prova ascoltando qualche minuto di un film (possibilmente in lingua originale!) senza guardarlo; si capiscono un sacco di cose: che tipo è chi parla, la sua età, la condizione sociale, che rapporto ha con il suo interlocutore, in che epoca e in quale luogo si trova, che genere di film è, il livello di tensione della scena e il suo ritmo.
Adesso basta però che vado a fare le ciambelle all’anice... immersa nella musica dei Portishead.

lunedì 16 giugno 2008

[cinema] Il moderno che avanza e la sua immagine. Lontano dal paradiso


Nel panorama piuttosto triste della controprogrammazione agli europei di calcio, che ogni sera propina Via col vento e Pane amore e fantasia, ritenuti evidentemente adatti al pubblico che non segue la partita (non chiedete perché), stasera Rai3 ha trasmesso un film interessante.
“Far from heaven” di Todd Haynes è un film metacinematografico (scusate il termine), stilisticamente ma anche nel modo di narrare. Il suo primo referente è senz’altro Douglas Sirk e il cinema americano degli anni ’50, anche se a me sono venute subito in mente l’inquadratura con cui apre Blu Velvet e l’ambientazione di American Beauty: villetta perfetta borghese con giardino curato sulla quale veglia una padrona di casa inappuntabile.
Le gonne a ruota e i completini bon ton della signora Withaker sono l’immagine di un mondo e di uno status che pare perfetto e incorruttibile, ma che si rivela ben presto assai diverso, tutto fatto di razzismi e intolleranza.
Scenografia, costumi e modo di raccontare anni ’50 (l’omosessualità è rivelata da un bacio, oggi ci sarebbe la scena di sesso) contribuiscono a dimostrare però che - nonostante tutto - il moderno avanza inarrestabile.
La protagonista ne è la prova vivente, anche se resta l’unica a perdere il treno della modernità, schiacciata tra gli stereotipi della società in cui vive e la proprie idee molto liberali per l’epoca. Un conflitto che resta irrisolto perché mentre gli altri trovano le loro strada (il marito divorzia e asseconda le proprie pulsioni mentre il giardiniere nero di cui si è innamorata lascia tutto e va a New York con la figlia, dove troverà una mentalità meno ostile al colore di pelle diverso), lei resta vittima dei limiti della società, che ha cercato di scardinare in prima persona.
L’immagine di buona borghese senza macchia le resta appiccicata come il servizio che una rivista realizza su di lei. E’ il primato della forma sulla vita.
Quell’immagine che in quest’opera torna di continuo - le foto per il giornale, le TV dell’azienda Magnatech, lo specchio nella camera d’albergo, i quadri alla mostra - sovrasta volontà e possibilità di agire liberamente.
Oddio... non è che (visto il primato indiscusso dell’immagine ai giorni nostri) è ancora così 50 anni dopo? O magari peggio?! 
Vabbé... ci dormo sopra direi... notte

venerdì 13 giugno 2008

[radio] La Tv italiana e la paura di sperimentare. Ma la radio no...

Con l’arrivo dell’estate (anche se dal meteo non sembra ci siamo già), la televisione si prepara come ogni anno al suo nulla estivo, fatto di repliche, fondi di magazzino e vecchissimi telefilm. Anche quest’anno stiamone certi ci propinerà duecento puntate della Signora in giallo, le ultime due serie del Commissario Rex, qualche replica di Carabinieri, Poliziotti e RIS, improbabili festival canori da sperduti e ameni luoghi e - ma solo se saremo fortunati - qualche film minimalista italiano anni ’60 - ’70.
Ormai la TV italiana è talmente autoreferenziale e incapace di azzardare anche a notte fonda che la sola parola “sperimentare” la fa impallidire.
Per fortuna la radio si sottrae a questo meccanismo sterile e in alcuni (abbastanza) casi, nel corso dei mesi estivi mette in onda programmi nuovi, testando nuovi conduttori o combinazioni diverse degli stessi.
E’ il caso di Radio2 (la radio che ascolto di più, in modo quasi esclusivo) che dopo una stagione di programmi seguiti e di successo prova anche a produrne di nuovi.
Sulla scia del successo di Fiorello e Baldini che negli ultimi anni con “W Radio2” hanno avuto un vero e proprio effetto trascinamento (sull’emittente ma anche sulla radio come mezzo), si iniziano a vedere i primi programmi nuovi.
Ed è anche il caso di .... condotto dalla coppia Asia Argento e Gianfranco Monti (che quando conduce da solo secondo me non funziona molto bene), un programma semplice ma che di sicuro funziona e “arriva”; così come era accaduto per Giorgia che lo scorso anno ha condotto un programma di successo risultando molto gradevole anche come conduttrice...
Si tratta solo di due esempi che però dimostrano la superiorità e la vivacità della radio sulla sorella (ora lei minore) TV... 
Quindi antenne pronte: potrebbe esserci qualche gradevole sorpresa tutta da ascoltare.

mercoledì 11 giugno 2008

[cinema] Ground zero e la 25a ora dell’America

Drcasado (che saluto e ringrazio) citando la scena di “Shortbus” mi ha fatto tornare in mente quello che secondo me è il più grande film sull’America post 11 settembre.
Sto parlando de “La 25a ora” di Spike Lee, uno Spike Lee maturo, profondo che sa dove affondare il coltello e lo sguardo e che dopo un’altra grande pellicola come “Summer of Sam” (SOS) ha dato prova delle sue qualità e dell’originalità del suo punto di vista.
Uno sguardo veramente americano se l’America è - come è - un incrocio di razze, un incontro di culture e identità diverse che spesso si scontrano per la conquista di quello sterminato continente che per la sua giovane età e la sua sconfinata grandezza resta ancora quello del mito dell’orizzonte da superare, da conquistare (come nei western).
Nella scena che credo la più forte e perfetta della 25a ora, quella cioè dove da un palazzo adiacente si vede dall’alto Ground zero il luogo che ospitava le torri gemelle, c’è al contempo il sogno americano e la sua distruzione.
Un sogno che aveva raggiunto vette inusitate e che ora ha lasciato un buco nero, una voragine primordiale che ha ingoiato tutte le certezze e le speranze di quel sogno (il sogno per eccellenza) e che forse sarà l’origine di una nuova era, diversa assolutamente dalla prima.
Un percorso e un destino speculare a quello del protagonista che nel suo ultimo giorno da uomo libero va verso una vita diversa alla quale non è pronto ma che è inevitabile. Come il destino.
(Una di queste sere devo assolutamente rivedere il film...)

martedì 10 giugno 2008

[sdvq*] w il calcio w gli europei (così la strada è più libera per me e la mia bici)

Una delle cose che mi fanno sentire meglio e che aspetto sul finire della giornata è il mio quasi quotidiano giro in bici, o forse dovrei dire corsa, visto che vado abbastanza veloce e in un’oretta mi faccio diversi chilometri.
Metto il mio ipod alle orecchie, seleziono una delle playlist che banalmente ho chiamato “bici1” “bici2” etc e che ho creato alternando i miei brani preferiti, facendo attenzione a salire e scendere di ritmo con i tempi giusti, e fuggo rapidamente dal centro città dove abito per arrivare nelle zone più verdi (zone che fortunatamente si raggiungono in un attimo essendo la città piccola). 
E pedalo pedalo riuscendo pian piano a far lavorare sempre meno il cervello e sempre più i muscoli, cosa che ritengo terapeutica e rilassante come poche altre.
Con mio gran sollievo da lunedì scorso, con l’inizio degli europei, all’ora di cena le strade anche se non proprio deserte sono molto più libere, il che significa meno puzza, meno rumore e meno pericolo, vista la quantità di idioti che circolano senza guardare dove vanno, attraversando a tutta velocità piste ciclabili, parcheggiando su discese per disabili (molto spesso guidano un ingombrante suv e parlano al cellulare con espressione inebetita).
Le poche macchine che girano - è vero - sono una minaccia, dal momento che corrono come forsennati per arrivare in tempo davanti alla tv; però sento la strada più amica e vedo anche cose normalmente invisibili e soffocate... insomma la città è più vivibile (definizione abusata che in questi casi assume davvero significato).
Quindi.. ben vengano mondiali europei e roba simile: voi state davanti allo schermo che per strada (stavolta) ci andiamo noi!


*sdvq significa “scene di vita quotidiana” e indica quei post che non rientrano negli altri ambiti (cinema, arte, libri, etc) che uso nei titoli per far capire di che parlo (beh magari il titolo a volte è più o meno intenzionalmente criptico o solo allusivo).

lunedì 9 giugno 2008

[arte] il cinema, il doppio e la domanda fatidica: cosa (non) è l’arte?

Oggi pomeriggio ho trascorso un’oretta con il mio prof di cinema (docente di un corso biennale che ho seguito dopo la laurea proprio perché c’era lui tra i docenti, ma credo di non averglielo mai detto) che ha presentato un cineforum sul tema del doppio che si terrà nei prossimi giorni.
Sempre in modo arguto ma diretto e chiaro è partito dal tema in questione per arrivare a parlare di arte oggi e ieri. 
Il doppio è un concetto intrinseco al cinema; il regista guarda e vede e noi vediamo coi suoi occhi ma anche con i nostri, sullo schermo c’è sempre il dato reale (cioè il profilmico, ciò che si vede realmente, quello che è stato ripreso) ma filtrato dall’autore che ha deciso di farci vedere una scena in un certo modo e di riprendere o meno un attore da un determinato punto di vista.
Ma il doppio pervade tutta l’arte, dove all’apparenza delle cose (e delle opere, ove ci sono) si contrappone il suo significato, o meglio quello che l’artista vuole dargli. E partendo dall’esempio della mummia - che oggi è un’immagine dell’orrore mentre nell’antico Egitto era l’immagine della vittoria della vita sulla morte, la capacità dell’uomo di bloccare, congelare la morte e consentire alla vita di attraversare intatta il tempo - si è dibattuto un po’ sull’arte, sull’interpretazione e sulla nostra società che si basa sull’evidenza dei fatti, rimuovendo freudianamente tutto il resto (l’interpretazione, il punto di vista, la ricerca d un significato oltre l’apparenza).
E questo ha stimolato come sempre in me la fatidica domanda che mi faccio (ma credo di condividerla con molti): cosa possiamo dire che sia arte?
Ma non oggi e adesso, in questo contesto. Mi riferisco a una definizione buona in modo assoluto... bella pretesa direte voi, dal momento che sono secoli che ci provano filosofi e teorici senza giungere a una risposta univoca.
Effettivamente pur appellandosi a Kant e alla critica del giudizio o alle migliaia di opere e parole che si sono spese sull’argomento la soluzione mi pare molto lontana.
L’arte è qualcosa riconoscibile da tutti? Beh allora esisterebbero dei canoni da seguire. Kant diceva se non ricordo male che l’arte è qualcosa che non ha un fine, non è “utile”... Ma allora è più facile dire cosa non è che cercare di capire di cosa si tratta? 
Beh io penso che non sia qualcosa che ha tempo, altrimenti nel XXI secolo non apprezzeremmo un dipinto del ‘500 o una chiesa romanica; ma non ha nemmeno spazio perché se per esistere dovesse occupare un luogo, le produzioni contemporanee che non sono più opere ma performance non sarebbero arte...
Vabbè, vado a farmi un gelato, non sono domande da porsi a quest’ora mentre tutti stanno incollati a vedere la partita degli europei! (per la cronaca mentre scrivo l’Italia perde 2 a 0 con l’Olanda... lo hanno appena detto alla radio)

[cinema] Sorrentino, Gomorra e co. Il cinema che viene dal sud


Il cinema italiano - a detta dei critici e dei giornalisti - è sempre sull’orlo del precipizio. Salvo poi smentire questa affermazione ogni volta che nelle sale esce un film italiano che ha successo al botteghino oppure quando un film di casa nostra riceve un riconoscimento in qualche festival.
Stavolta è accaduto con Gomorra e Il Divo, due film nelle sale in questi giorni il cui valore è stato ampiamente riconosciuto a Cannes.
Meno male, così parlando del sud non si tira in ballo solo ‘a monnezza...
Un’ottima cosa anche perché ci fornisce l’occasione di ricordare la vivacità - cinematograficamente parlando - dell’Italia del sud negli ultimi anni.
Penso sicuramente alle pellicole di Sorrentino, interessanti e di successo, a Mario Martone che è riuscito a raccontare sentimenti paure e sensazioni che hanno un respiro davvero transnazionale (due titoli su tutti L’amore molesto e il bellissimo Teatro di guerra, sulla guerra vera, la guerra mancata e la guerra interiore), ma anche ad Antonio Capuano che pochi anni fa (3 se non ricordo male, ma le date non sono il mio forte) ha realizzato uno splendido lavoro dal titolo La guerra di Mario.
Se non lo avete fatto vi consiglio più che caldamente di vederlo. E’ un’opera intelligente e mai scontata che racconta di un bambino che vive una vita davvero difficile e che viene affidato a una famiglia borghese, portando crisi e scompiglio senza riuscire ad allontanare nemmeno per un attimo i propri problemi e fantasmi.
La purezza e la realtà (diciamo pure crudezza) delle immagini si sposano alla purezza del linguaggio, anzi dei molteplici linguaggi, che si incontrano e scontrano senza mai riuscire a comunicare davvero.
Nel film ha una colonna sonora che da sola è in grado di narrare un mondo: suoni musica parole e lingue diverse si rincorrono e sovrappongono a raccontare un mondo (quello di Napoli e del sud) che mi ha sempre affascinato (da centro italica che sono).
La guerra di Mario è anche un film sul destino di un bambino, un destino che non può mutare e che investe le sue origini, la sua lingua e il suo territorio; una storia che commuove, fa pensare e colpisce dritto allo stomaco... un bel pugno che raramente i film ci regalano e che fa sempre bene, non credete?

domenica 8 giugno 2008

ciaooooooo

sto costruendo questo blog, che ho deciso di fare così per caso e adesso ho deciso di finire... quindi non appena completato ci vediamo qui... a prestissimo!