Un blog sul cinema. E tutto il resto

martedì 29 luglio 2008

[cinema] Il cavaliere oscuro. Ovvero le ali sulla città dopo l’11 settembre


L’ultimo atteso Batman firmato Nolan è un film assolutamente contemporaneo. Bella forza direte voi. Si ma lo è nel senso che si tratta palesemente di un’opera post 11 settembre, e questo è evidente da molti elementi.
Ma cerchiamo di andare con ordine. Sin dalla prima scena della rapina il motivo dello sdoppiamento si fa centrale: ci sono più rapinatori tutti mascherati (un po’ moduli un po’ cloni del Joker) che si eliminano uno con l’altro facendo il gioco della “matrice” Joker; la rapina avviene in una banca che però è una banca speciale in quanto proprietà della mafia; Batman (già doppio per natura, pipistrello di notte e miliardario di giorno) si moltiplica confondendo lo spettatore; la moneta che Harvey lancia - il doppio testa/croce - ha in realtà due teste; la faccia stessa di Harvey appena scampato all'incendio dell’ospedale diventa doppia, per metà la sua e per metà teschio.
E questo per quanto concerne sembianze e tratti distintivi.
Andando più avanti si comincia a delineare uno scenario al quale siamo abituati e assuefatti. Il bene non è sempre tale al 100%, anzi, in percentuale variabile si vela di male, a volte per necessità a volte per meschinità o egoismo. Ma il bene assoluto non c’è.
Già questo è segno dei tempi recentissimi, dove tutto e tutti paiono essere implicati nel male (anche noi con il nostro agire quotidiano abbiamo pesanti colpe).
Quindi non più bianco o nero ma un grigio (plumbeo) diffuso un po’ ovunque. Un humus dove il male - qui impersonato da Joker - attecchisce benissimo fino a sguazzarci.
Come accaduto nel 2001 per le torri gemelle di NY, gli attacchi arrivano inaspettati (perché senza apparente motivo) e colpiscono i punti nevralgici di Gotham.
Anche visivamente, i vetri rotti, le finestre che esplodono e i palazzi che si accasciano su se stessi ci riportano all’11 settembre.
La città (Gotham è rappresentazione della città contemporanea) - come NY e come ogni metropoli da allora - è vulnerabile e nuda, esposta ad attacchi prima impensabili. Le inquadrature mostrano uffici e case con immense vetrate che enfatizzano questa “nudità”.
Batman con i suoi strumenti sofisticati e i suoi poteri (dotazioni occidentali) pare impotente al cospetto della follia pura e fine a se stessa del male incarnato dal Joker.
Un Joker che non è più quello che conoscevamo, il fool di gomma con il sorriso beffardo stampato in bocca, fumetto quasi rassicurante nella sua riconoscibile ripetività, che faceva convergere l’azione e l’energia tutta su Batman.
Questo Joker è violento, ha una faccia poco rassicurante dove il trucco colorato e pop ha lasciato spazio a una maschera sbavata e consunta e dove il sorriso è un taglio profondo di una lama (ferita che ogni volta assume cause diverse nei suoi racconti ma che è sempre dovuta a violenze, dolori o soprusi).
Un male che non si può incasellare né arginare, come quello dei terroristi dell’11 settembre che - nonostante gli sforzi americani - ancora non hanno un volto preciso e soprattutto un male che non si può battere perché non ha nulla da perdere e colpisce indistintamente tutto e tutti (“Il bello del caos è che è equo”).
La scena in cui il Joker galleggia appeso nell’aria sta a dimostrarci che la paura è lì in agguato e può palesarsi in ogni momento, anche attraverso i gesti delle persone che non ci aspettiamo.
Perché - dice Joker - “La follia è come la gravità, basta solo una piccola spinta”.
BOOM!

mercoledì 23 luglio 2008

[cinema] Donne (vere) tra tragedie, fantasmi, malattie e piatti da lavare. Volver: questa è vita!



Uno dei miei sport estivi preferiti è il recupero-del-film-in-dvd-perso-al-cinema. Tra i (sempre troppi per me) film che mi ero ripromessa di recuperare al più presto c’era “Volver”, che non ricordo per quale motivo persi al cinema. In realtà avevo acquistato il dvd da un po’ di tempo ma non trovavo mai il momento adatto; finalmente è arrivato.
La cosa che più mi ha colpito nel film di Almodovar - sin dalla prima memorabile scena al cimitero - è l'affresco che Pedro fa della vita, del vivere quotidiano (la cosa più semplice e più complessa che ci sia). Le protagoniste (tutte bravissime e perfette con in testa l’icona Carmen Maura e un’ottima Cruz) sono l’incarnazione stessa della vita, quella vera.
La vita che è dominata dalla tragedia (in senso classico), che fa convivere vivi e morti, fantasmi (reali o presunti non importa) del passato con ombre del presente, che fa incontrare morte e malattia con la femminilità emozionante di una abito colorato o di una scarpa col tacco alto.
La vita che - ancora una volta - è dominata dalla donna che supera difficoltà e ostacoli, ama senza riserve, è solidale con altre donne e che vive sospesa tra una faccenda in cucina, un lontano ma vivido ricordo e lo spirito d’iniziativa necessario per affrontare il futuro.
Una donna forte e decisa che è orgogliosa anche quando è colpita dalla malattia (il rifiuto di Agustina alla tv spazzatura) e che ha il potere di dare la morte a un uomo che la merita (ma che con sensibilità femminile, dopo averlo lasciato in congelatore per giorni ha un moto di compassione e trova per lui una sepoltura il più degna possibile).
Trovo meravigliose queste donne (e nulla c’entra con certo femminsmo!) che tra una tintura ai capelli improvvisata in casa e un lavoro precario inventato dal nulla tirano avanti, forti fragili e sempre affascinanti.
Come la Magnani giustamente omaggiata con la citazione di “Bellissima” che mostra la donna più forte, orgogliosa e fiera del cinema di tutti i tempi.
W le donne! (e chi le sa raccontare).

lunedì 14 luglio 2008

[cinema] Per favore non chiedermi la trama


Non so se a qualcuno di voi accade lo stesso, ma una delle domande che mi vengono rivolte più spesso per sapere com’è un film che ho visto o che consiglio di vedere è: “di che parla?” o “mi racconti la trama?”, “che genere è?”.
Domande apparentemente banali e innocue che però mi mettono sempre in difficoltà (lo dichiaro così magari qualcuno me la risparmia la prossima volta!).
Dal momento che la domanda è legittima, il problema è sicuramente mio... cerco allora una spiegazione. La prima che mi viene in mente è che - magari inconsciamente - prediligo film dove la storia intesa come trama è secondaria, può esserci o meno, ma non è mai questo che fa a differenza...
Come si fa a riassumere a parole Mullholland Drive o Deserto Rosso? Come spiegare che Won kar-wai è uno dei più grandi innovatori del cinema provando a raccontare una storia che non sembra (e forse non lo è) scritta in un copione ma che nasce e si materializza attraverso la cinepresa?
Beh a me pare assai difficile. Ma difficoltà (o incapacità) personale a parte, mi chiedo il perché di queste domande ricorrenti... perché dopo oltre un secolo di arte cinematografica e dopo le sue trasformazioni escatologiche filosofiche tecnologiche e linguistiche abbiamo ancora bisogno di sapere “che genere è?” “di che parla?”. Mi sembrano quesiti impossibili anche per la pittura o la scultura, per quale motivo dovrebbero trovare risposta per la settima arte?
Forse la causa sta nel nostro bisogno di catalogare ed etichettare (ancora!?); forse nella poca disponibilità a lasciarsi andare davanti a qualcosa di ignoto che può rivelarsi un’emozione troppo forte; forse nella paura di non essere all’altezza degli stimoli e delle provocazioni che vengono da una pellicola; forse nella pigrizia che pone limiti alla voglia di riflettere, scoprire legami e riferimenti. Forse nell’abitudine alla televisione che tutto definisce e prepara, che ci conforta perché se anche ci stacchiamo dallo schermo per andare in bagno o per una settimana di vacanza, le storie e le trame sono lì, inamovibili, prevedibili e immutate, rassicuranti.
Personalmente preferisco faticare un po’ di più. A volte - credetemi - dà una grande soddisfazione e un inatteso piacere.

lunedì 7 luglio 2008

[fotografia] Il fascino (in)discreto del bianco&nero

L’altro giorno mi sono imbattuta in un sito di fotografie in bianco e nero, una mia grande passione. C’erano parecchie foto, alcune delle quali davvero degne di nota; ognuna comunque aveva qualcosa di interessante... Roland Barthes - se non ricordo male - credo lo chiamasse il punctum; un centro attrattivo, una forza fuori campo che l’immagine suggerisce e proietta. Guardiamo un’immagine e quello che ci colpisce è un dettaglio per la sua capacità di chiamare in causa qualcosa che non è lì, non è stato impressionato sulla pellicola, ma che dalla stessa è evocato.
Ho riflettuto su questa cosa da quando lessi (secoli fa!) “La camera chiara”, perché spiega bene l’effetto che hanno su di me le fotografie. Solo quelle in bianco e nero però.
Quelle a colori, per quanto belle, suggestive e artistiche non esercitano su di me lo stesso fascino.
Questa cosa è curiosa credo... non so se qualcuno di voi provi lo stesso.
La spiegazione che mi sono data riflettendoci un po’ è questa: le foto a colori mi danno l’idea della realtà mentre quelle in b/n mi danno... l’idea dell’idea!
Mi spiego meglio. Mentre il colore si riferisce sempre all'oggetto che rappresenta (ad esempio un tavolo verde è quel tavolo, quello e non altri), il b/n - rinunciando alla riproduzione fedele del dato reale - opera un’astrazione e suggerisce un’idea meno contestualizzata (il tavolo che vedo può essere di qualunque colore e quindi anche di qualsiasi epoca e ubicato in qualsiasi luogo).
In sintesi: il colore probabilmente toglie molte possibilità di immaginazione e di interazione a chi guarda.
Oltretutto, essendo la foto per definizione un’icona della morte (visto che cattura un momento che mai più tornerà, congelandolo per sempre) il colore, per la sua fedeltà, appare un po’ inquietante (ma forse solo a me!), mentre il b/n sembra regalare al soggetto fotografato una sorta di eternità, un valore che va oltre il soggetto-oggetto.
In fondo è lo stesso effetto che suscitano spesso i film in bianco e nero.