Un blog sul cinema. E tutto il resto

domenica 21 settembre 2008

[cinema] Devo inventare una nuova me stessa! (Burn after reading)


Il nostro è un mondo mediocre popolato da gente mediocre (quando va bene). Sembrano dirci soprattutto questo i Coen Brothers con il loro ultimo film.
Dopo averci lasciato con un mondo governato dalla pura follia innescata dalla casualità in “Non è un paese per vecchi”, qui i fratelli registi ci mettono di fronte all’ineluttabile imbecillità dell’essere umano medio(cre).
Laddove a decidere le sorti del primo capitato (e per estensione del mondo) era un folle talmente lucido da decidere se uccidere o meno con il testa-o-croce delle monetina, qui a innescare il meccanismo fino a intrecciarsi addirittura col potere (rappresentato dalla CIA) è una donna di mezza età che insegue l’amore cercando uomini su Internet. Ma il concetto di casualità che governa il mondo rimane al centro.
Grazie ad esso la suddetta donna e il suo amico ipod-dipendente tutto-muscoli-e-zero-cervello possono imbattersi in una serie di situazioni che potrebbero addirittura minare la sicurezza nazionale. La mediocrità è diffusa, ingovernabile, pericolosa.
Tutti i personaggi del film, che per il loro essere sopra le righe somigliano molto a quelli di John Landis - girano attorno alla propria pochezza: c’è chi (Clooney) abborda ogni donna che incontra per poi fare jogging dopo il sesso, in una coazione a ripetere che lo rende sempre più incapace di risolvere il rapporto con la moglie, che a sua volta lo tradisce; chi (Malkovich) non riesce a fronteggiare i propri fallimenti e per questo rovina se stesso e la propria vita; chi (Pitt) pare essere tutto corpo e avere una testa utile solo a tener su i capelli; e chi (la McDormand) ha come unico obiettivo quello di farsi quattro interventi di chirurgia estetica perché - dice - “Devo reinventare me stessa”.
E’ questa la frase-cardine del film che pare presa in prestito a uno slogan mediocre di un qualche prodotto cosmetico mediocre.
Perché il mondo è davvero tale: se ci riflettiamo un attimo, quelli che incontriamo tutti i giorni non somigliano più spesso ai personaggi di questo film che a un Nobel per la letteratura o la fisica?

lunedì 8 settembre 2008

[cinema] Il corpo come anarchia: il mito dei Blues Brothers


In questo periodo sono stata coinvolta (assai volentieri) in un progetto che prevede una rassegna di film in lingua originale (per la cronaca a Spoleto). La scorsa settimana in programma c’era la proiezione di uno dei miti del cinema di tutti i tempi: “The Blues Brothers”.
Parlando del medesimo, e rivedendolo ancora una volta a 28 anni dalla sua uscita nelle sale, ho deciso di soffermarmi su un aspetto fondamentale del lavoro di Landis, uno degli elementi che hanno contribuito a renderlo il mito che è: l’anarchia (e come questo concetto viene affrontato).
Tutto il film è ovviamente un inno all’anarchia e al rifiuto delle regole: le regole di un’America consumistica (si rade al suolo un centro commerciale, mecca del consumismo!), repressiva e pronta a mettere mano alle armi in ogni momento, bigotta e spesso razzista, che si contrappone a un’America (e a un mondo) che rischia di scomparire (quello cristallizzato nel periodo dell’infanzia che nel film è rappresentato dall’orfanatrofio).
A contrapporsi ai riti e miti del mondo che un tempo avremmo chiamato WASP (incarnato dai sopraccitati simboli) c’è un’anima R&B, un cuore soul che irrompe, grida, scuote quel mondo e lo travolge col suo ritmo irrefrenabile e la sua musica esplosiva. Ma c’è anche (se non soprattutto) la rivincita su tempo e spazio di un fattore ingombrante, il più ingombrante per ogni essere umano: il corpo.
In The Blues Brothers li corpo è un elemento anarchico che, ribellandosi alle leggi fisiche, contravviene a tutte le regole, si libera di ogni peso, sfida e vince la gravità.
Solo così - sembrano dirci i fratelli Blues - facendo del corpo un oggetto leggero e flessibile tanto da sembrare un cartoon, si può essere padroni del proprio destino e della propria anima. 
Anche se poi per una tale libertà (in fondo spaventosa come ogni vera utopia) alla fine la società chiede sempre un conto da pagare.