Un blog sul cinema. E tutto il resto

mercoledì 18 novembre 2009

[cinema] Nemico pubblico N. 1 o dell’eroe-autore


Il modo di narrare di Michael Mann è parte fondante dei suoi film; non è un punto di vista ma un personaggio. Spesso il principale.
E il suo ultimo film lo dimostra ancora una volta, in modo più forte che mai. Questo Public Enemies – la storia di Dillinger, personaggio mitico dell’America – è il ritratto di un eroe che crea il suo spazio ed è artefice primo del film. Dillinger (Johnny Depp, non poteva essere altrimenti) irrompe sullo schermo e imprime la pellicola sin dai primi momenti.
Il suo personaggio esce di prigione e entra nel mondo (che rappresenta anche la libertà) disegnando in prima persona lo spazio che, assieme agli altri con i quali divide la scena, esiste solo perché è lui a volerlo e a “progettarlo”.
Lo fa creando iperboli con le armi, attraversandolo con lo sguardo (la pellicola è piena di primi piani), ripetendo gesti e situazioni (le rapine in primis) che lo rendono regista assoluto di se stesso e di quello che lo circonda.
Emblematica a tal proposito la scena che lo vede entrare negli uffici dell’FBI senza nascondersi (ma senza che nessuno si accorga della sua presenza), rimirare compiaciuto le sue foto alle pareti e guardare tutti quegli impiegati che lavorano solo per catturarlo (l’FBI – che nasce in quel periodo e si chiama ancora solo Bureau – non deve forse a John la sua esistenza? Il suo antagonista Purvis non esiste solo come suo alter ego?).
Il Regista-Dillinger scrive la sua storia, che inizia da eroe ma finisce, inevitabilmente, da antieroe, lasciando nello spettatore sentimenti di ammirazione, rispetto, a volte timore ma anche umana comprensione. Proprio come un grande Autore.

giovedì 8 ottobre 2009

[cinema] L’Autore, i Personaggi, il Pubblico: Bastardi senza gloria


Perché Quentin Tarantino è un Autore con la A maiuscola? La domanda che – volendo – apre scenari infiniti, ce la potremmo porre per ogni regista (ma anche artista in genere) della nostra era. Adesso che non è più così semplice individuare l’artista poiché non esiste più l’oggetto d’arte, ma al solo la performance, il gesto, tutt’al più il soggetto d’arte, questo domanda è più che mai lecita e stimolante.
E la risposta non può che essere molteplice: Tarantino che con “Le Iene” era già arrivato in alto (forse al vertice della sua carriera), con “Pulp Fiction” ha inventato un nuovo linguaggio scardinando i precedenti, come fa un vero artista. Lui non bada alle regole, anzi ci gioca e si diverte a sovvertirle, fa un B-movie dandogli lustro da capolavoro, i suoi “segni” sono ormai riconoscibili e unici, i suoi personaggi sono già archetipi (come la sposa di “Kill Bill” per dirne uno).
A conferma di ciò, ormai quando andiamo a vedere un suo film ci aspettiamo cose precise da lui come autore.
Questo accade spesso ovviamente; ma mentre per un Woody Allen ci aspettiamo esattamente quello che poi troviamo in ogni nuova pellicola, e cioè ci attendiamo che ci tranquillizzi in qualche modo (col suo linguaggio, i personaggi WASP, con i misantropi e gli intellettuali che popolano i suoi film), da Tarantino ci aspettiamo di essere spiazzati e destabilizzati.
Dopo i due capitoli di Kill Bill (e in attesa dell’inevitabile terzo), il Nostro si muove stavolta nel terreno difficile del nazismo. “Bastardi senza gloria” potrebbe essere uno dei tanti film (non discutiamo sulla qualità) su questo argomento, ma nelle sue mani diventa - anche - altra cosa: lo scalpo, le pistole puntate tutte insieme, la pellicola che brucia, il finale, sono la firma dell’autore, che si diverte come un matto a girare questa storia. Lo fa per sé ma strizzando come sempre l’occhio al pubblico e chiamandolo a condividere le sue passioni e le sue fissazioni: vecchi film, icone strampalate, personaggi che sembrano vivere di vita propria.
In fondo tutti bastardi senza gloria.

martedì 29 settembre 2009

[libri] Nefandezze, umanità e amore visti dalla Rambla: Francisco Gonzalez Ledesma


C’è una Barcellona che appartiene al passato e forse non è mai realmente esistita (o forse è l’unica vera) e che esce prepotentemente dalle pagine di un libro: “Storia di un dio da marciapiede” di Francisco Gonzalez Ledesma. La sua città inizia e finisce in pochi quartieri, la sua vita si snoda attorno alla Rambla ma soprattutto nel Barrio Chino, nei suoi locali, nel puzzo dei vicoli e nei suoi vini di pessima qualità. È la città-microcosmo del protagonista, l’ispettore di polizia Mendez, che pensa di non riuscire a sopravvivere fuori da quel quartiere e che invece - per seguire un caso terribile di morte dove c’è di mezzo una bambina - si troverà prima a Madrid e poi addirittura in Egitto. Ma scoprirà che anche laggiù, nella mitica terra dei faraoni, la gente in fondo è la stessa: sporca, crudele, vigliacca. Così sono i personaggi che si incontrano in queste pagine, siano essi killer spietati, separatisti dell’Eta, alti funzionari o ricchi borghesi.
In fondo, scopre Mendez, nessun posto è tanto diverso da quello popolato di disgraziati, delinquenti e prostitute nel quale lui vive e del quale si nutre e dove però i suoi occhi smaliziati e poco inclini allo stupore riescono ancora a commuoversi per lo sguardo di una bambina innocente: l’unica poesia possibile in questo mondo e l’unico motivo per cui valga la pena vivere.
Il libro è un perfetto noir nell’architettura e nei meccanismi (ci sono tutti i crismi, dal commissario che agisce al limite del legale alla suspense), ma Ledesma fa del genere soprattutto uno strumento per parlare della cosa che davvero gli interessa e vuole mostrarci: l’umanità e le sue (troppo spesso squallide) sfaccettature.

lunedì 21 settembre 2009

[cinema] Drag me to hell, senza ritorno… Raimi, il padre di tutti gli horror


I vermi vomitati, la vecchia mostruosa, il cimitero, le sedute spiritiche, la biondina campagnola, il soprannaturale e soprattutto lo humour nero: è un vero manuale dell’horror “come Dio comanda” l’ultimo film di Sam Raimi.
Gli ingredienti ci sono tutti, quegli elementi che fin dagli anni ’70 fanno di un horror ciò che è, un piatto gustoso, di quelli che si va sul sicuro (come una bella lasagna) ma che cucinato da uno chef ha tutto un altro sapore. Raimi rispolvera con divertimento (e si vede) gli stilemi classici del genere ma lo fa con rara ironia e con capacità tempistiche e registiche uniche. Il gioco funziona e diverte, soprattutto nella prima parte della pellicola quando l’orrore è chiamato in causa ma non si rivela completamente; e nei tocchi da maestro, come la scelta di una protagonista ex campagnola e ora bancaria in cerca di una promozione a vice direttore, che incarna il rampantismo spietato e che il regista si diverte a punire esemplarmente.
Il finale – prevedibile ma forse non troppo – provoca un piccolo sussulto nello spettatore ma strappa anche un sorriso. Luciferino.

giovedì 23 luglio 2009

[Opportunità] Filmare lo spazio urbano. Il Festival Videopolis

Al via il concorso per opere videocinematografiche VIDEOPOLIS
L’XI edizione del Festival Nazionale “Videopolis - creativity" si svolgerà a Padova dal 3 al 5 novembre 2009.

C’è tempo fino al prossimo 15 settembre 2009 per partecipare alla selezione di opere videocinematografiche sulla rappresentazione dello spazio urbano, il tema che caratterizza il Festival, promosso dalla Regione del Veneto e giunto ormai alla sua XI edizione.
Possono partecipare al concorso documentari e fiction che abbiano come tema lo spazio urbano e la sua rappresentazione (inteso nella dimensione urbanistica, ambientale e culturale) e una durata massima di 30 minuti; le opere devono essere di autore o di produzione italiani e realizzate successivamente al 31 dicembre 2005 e non devono essere state presentate a precedenti edizioni del festival.
Le opere selezionate parteciperanno al Festival e saranno esaminate dalla giuria nominata dal Presidente della Regione del Veneto e presieduta da Folco Quilici.
Il bando integrale e la scheda di partecipazione sono disponibili all’indirizzo web:
www.regione.veneto.it/videopolis

INFO

Segreteria Organizzativa
Tel. 041 81030895
E-mail: videopolis@dge.it

mercoledì 24 giugno 2009

[libri] Se Almodòvar diventa un teorema: il romanzo d’esordio di Antoni Casas Ros


I libri da leggere si scelgono per tanti motivi. Il titolo, la copertina, l’autore,… “Il teorema di Almodovar” l’ho scelto per il nome del regista nel titolo (quindi ha funzionato!), per l’età dell’autore (che è mio coetaneo) e perché è un’opera prima (sono convinta che la magia degli esordi difficilmente si possa replicare).
Il romanzo parla di un uomo dal volto cubista, sfigurato in seguito a un incidente d’auto nel quale la sua ragazza ha perso la vita. Lei la vita e lui la faccia.
In seguito a quell’episodio lacerante il protagonista, che si chiama Antoni come l’autore, dopo aver provato le vie (inutili) della chirurgia, si arrende; un po’ perché non vede soluzione, molto perché è il suo modo di chiudersi al mondo, di sfuggire a quella realtà che lo ha profondamente ferito e che ora è incapace di affrontare. Così di giorno sta chiuso in casa a impartire lezioni di matematica via Internet e di notte, col favore delle tenebre, scende per le viuzze di Genova.
Oltre al cinema – ce n’è tanto, attraverso riferimenti e suggestioni, non solo almodovariane – nel libro c’è l’idea forte dell’amore possibile. L’amore che si rivela inaspettato in tutte le situazioni, nel volto insostenibile di un essere umano così come nel corpo multiforme/mutante di un travestito (la bella Lisa) che è in grado di sostenere lo sguardo su quel viso deturpato perché nei propri occhi c’è la capacità di guardare oltre.
Come quella che serve per vedere l’essenza delle cose e della vita; e come quella che rende capaci di vedere (davvero) un film.

giovedì 21 maggio 2009

[cinema] The Breach: il dubbio si fa breccia


Ormai la stragrande maggioranza dei film – tranne rari e interessanti casi – riconduce e rimanda ad altri film: evocando, citando (spesso scopiazzando).
Tanto che i critici fanno spesso le loro recensioni
  con paragoni e paralleli; il che è più che giustificato sia perché le “coincidenze” sono frequenti sia per la notevole quantità di pellicole che girano.
Vedendo in questi giorni
 the Breach (Billy Ray, 2007), era inevitabile che mi venissero in mente un sacco di film (spie, cia, fbi, infiltrati,…) ma soprattutto il recente La vita degli altri.
Pur essendo il film tedesco degno di nota, la pellicola di Ray pare esser riuscita a mettere in scena il rapporto tra spia e spiato, indagatore e indagato in modo molto più vero (non per forza realistico, ma vero), senza scadere nello psicologismo che nella citata pellicola invece a volte emerge.
The Breach è un film che va a segno grazie innanzitutto alla non pretenziosità (soprattutto psicologica) degli intenti del regista, che riesce a rendere i meccanismi di un rapporto complesso inquadrato in uno sfondo di inganni e doppi inganni (ordinario amministrazione per il contesto in cui siamo, quello del Bureau).
Grazie anche agli attori, soprattutto un grande Chris Cooper, il film scorre e intriga alla maniera dei classici nel senso “compositivo” del termine e sviluppa una tensione nella sceneggiatura che non esplode mai e per questo affascina e avvolge lo spettatore (non a caso il regista nasce sceneggiatore in casa di scrittori).

domenica 19 aprile 2009

[cinema] Terre difficili: la Free Zone delle donne


A volte ritornano... quindi anche io! E tra un’assenza e l’altra ieri sera ho recuperato “Free Zone” di Amos Gitai, uno dei pochi cineasti in grado di raccontare la “politica” e la geografia dal punto di vista dell’uomo. E forse più spesso della donna.
Sullo sfondo di una terra, anzi di più terre, mirabilmente non troppo identificabili ma parti ognuna di una terra più grande (quella del conflitto perenne e mai risolto tra popoli vicinissimi e lontanissimi ad un tempo),il film racconta la vita quotidiana e i sentimenti di tre donne e la loro difficoltà di vivere.
Da punti di vista mai scontati e che rifuggono l’affresco facile (come l’eloquente prima lunga inquadratura fintamente fissa sul volto sofferente e bello in modo inusitato di Natalie Portman), Gitai racconta “la storia” contemporanea. Lo fa con un road movie che è un viaggio della speranza e della rassegnazione, ai confini ipersensibili e laceranti di terre martoriate, verso una zona franca che appartiene più al concetto e con un tempo completamente ricreato, che non è quello della realtà ma che il tempo reale rappresenta puntualmente.
I destini diversi ma in fondo uguali di donne che, ognuna a suo modo, soffrono ma cercano di costruire e tirar avanti (in contrapposizione agli uomini violenti e dai modi arroganti, come quelli preposti al controllo dei confini), sono qui narrati in una forma geometrica che non lascia spazio a nessuna sbavatura e men che mai a vedute simil-turistiche.
Ma soprattutto il racconto si snoda attraverso i suoni, le parole (tantissime e ritmate!) delle donne e i rumori che pur ovattati penetrano dall’esterno nell’abitacolo dell’auto e nelle vite delle protagoniste, a ricordare il contesto non-indifferente nel quale si trovano; fino all’alterco verbale su cui si chiude il film, parabola significativa di uno scontro senza fine.
P.S. Il film è in lingua originale sottotitolato, l’unica via possibile per rendere la babele culturale che passa anche attraverso quella linguistica.

lunedì 9 marzo 2009

[cinema] Revolutionary road o la mise en scene di un fallimento


Il nuovo (riuscito) film del regista di American Beauty (sopravvalutato) è un’opera sulla rappresentazione e sul suo fallimento.
“Revolutionary road” di Mendes comincia sul palcoscenico di un teatro, dove la protagonista sta recitando in una piece che si rivela un fiasco. È il prologo del fallimento del ruolo che la donna si trova a interpretare nella vita, ovvero quello di moglie. Finito lo spettacolo il marito nel camerino cerca di confortarla ma evidentemente senza esito. Da qui in poi si dipanerà un viaggio impietoso tra i meandri di una coppia o meglio di quello che la coppia cerca, deve, vuole rappresentare. Il film è l’analisi di un rapporto che si rivela fallace proprio perché mancano quegli elementi che lo rendono tale (lo scambio, il contatto, l’incontro e qui soprattutto la complicità); quello che c’è tra i due coniugi protagonisti (gli ottimi Di Caprio e Winslet) è appunto la messa in scena di un legame che manca di veridicità e si perde nell’isteria. Tutto ciò che riguarda la vita dei due è una rappresentazione: la casa, i vicini, gli amici, persino lo sfondo urbano su cui si stagliano è un palcoscenico dove sono chiamati a recitare il loro esasperante ruolo. Ogni cosa, anche la tenerezza o la possibilità di generare la vita restano sospesi tra gestualità e parola, nell’impossibilità di bucare la quarta parete e scendere nella platea della vita.
Un’analisi precisa e chirurgica di un rapporto come quello coniugale che spesso è divenuto oggetto cinematografico ma che raramente (forse dai tempi di Bergman?) ha assunto questa forma.

giovedì 12 febbraio 2009

[cinema] Lasciami entrare. La soglia dell’età adulta e l’adolescenza come mutazione e conoscenza


Il film di Alfredson “Lasciami entrare” è uno dei più interessanti e affascinanti degli ultimi anni.
Come interessante è l’età dell’adolescenza; un momento di transizione e trasformazione radicale che da sempre attrae letteratura, arti visive, cinema. Basti ricordare la Lolita kubrickiana – rappresentazione mitologica dell’adolescenza – che in una nota sequenza è associata a un essere “mostruoso” (con un montaggio che palesa la sovrapposizione e la fusione delle due creature), non più bambina e non ancora donna.
In questa pellicola, dove si incontrano l’educazione sentimentale e la scoperta della sessualità di due adolescenti, l’incapacità dei sentimenti veri del mondo adulto, la scoperta e la paura dell’altro e del diverso, è soprattutto la semplicità della comunicazione tra i due ragazzini a colpire (meravigliosamente esemplificata nell’ultima scena sul treno…).
Un film esteticamente sublime che non si dimentica facilmente (scene come quella iniziale dell’uomo appeso o quella della piscina sono indelebili).
W la Svezia

martedì 27 gennaio 2009

[cinema] It’s only love baby... Cuore selvaggio e l’amore assoluto

L'altra sera per puro caso (nel senso che mi è praticamente caduto in testa il dvd) ho rivisto “Cuore Selvaggio” (anno 1990 per chi se lo stesse chiedendo), puro film David Lynch ma direi soprattutto film d’amore. Sull’amore e sulle sue declinazioni, possibilità, espressioni, contesti. Ma sempre amore, assoluto.
Attraverso la sua nota fissazione per il dettaglio, la sua insistenza morbosa sul particolare (che pacificherà molti anni dopo con The Straight Story), il maestro Lynch ci mostra una vera storia d’amore, senza se e senza ma, come pochi altri film sono riusciti a fare. Almeno in un contesto tale, dove violenza, ossessioni, follie, drammi, sangue, teste mozzate, galera e stupri sono la cornice non proprio ideale e non esattamente idilliaca per una storia d’amore. Ma dove l’amore, quello vero senza compromessi e che non necessita di spiegazioni, è puro, forte, travolgente nonostante tutto. Assoluto appunto. C’è un altro film che associo a questo e che racconta così l’Amore: è “Natural Born Killers”, dove i protagonisti in una folle orgia di violenza e omicidi si amano (davvero) e non possono fare a meno l’uno dell’altra.
Azzardiamo che si tratta di film romantici?
P.S.
Aspetto assolutamente di vedere “Milk”...

domenica 4 gennaio 2009

[cinema] Quante volte? I film da ri-vedere, 2001 volte...


Puff... l'anno (cinematografico e non) è andato. Mentre alcuni - come me - sono in attesa che le sale si sgomberino dai film di natale (con tutto il rispetto a loro dovuto, sia chiaro!) approfittano degli ultimi scampoli di feste per vedere e ri-vedere qualche dvd in orari magari proibitivi nei giorni feriali. 
Filimic, con cui stavo chattando poco fa, mi diceva che forse stasera farà una maratona Kill Bill mentre io stavo dicendo che dovrei ri-vedere "2001"; sono quasi due anni che non lo faccio e non va bene... L'Odissea kubrickiana, madre di tutti i film, origine di tutte le inquadrature e detonatore di ogni viaggio intrapreso dai cineasti contemporanei, va visto almeno una volta l'anno. Per avere ben presente cos'è il cinema e cos'è il film (direbbe qualcuno!), non per altro.
Beh, ho cominciato a pensare ai film che ho ri-visto tante volte nella vita: al numero uno c'è senza dubbio The Shining, ma poi un sacco di altri film, i più disparati; da Jules e Jim a Assassinio sull'Orient Express (ahah), da Crash a Nodo alla gola, da America oggi a Ombre rosse a Invito a cena con delitto,... e per i motivi più diversi.
Quante volte!... e voi quante volte avete visto cosa?