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venerdì 23 aprile 2010

[cinema] La verità della finzione ne “La vita che vorrei"


Giuseppe Piccioni è un autore vero, uno di quei rari (molto rari alle nostre latitudini) registi capaci di prenderti per mano e portarti dentro a una storia, farti dialogare con i suoi protagonisti, persino farti interagire con tutto ciò che è in scena. Ho appena recuperato uno dei suoi pochi (credo di non averne visto solo un altro) film che avevo perso, “La vita che vorrei”, che conferma tutto ciò.
Si tratta di una storia d’amore e di “interazione” umana, raccontata, recitata e mostrata a più livelli: quello degli attori (bravi) del film, quello dei protagonisti della storia principale e quello dei protagonisti del film in costume che si sta girando (ciascuno è uno e trino in questo film).
Un gioco di livelli che convince e funziona; un discorso ben impiantato dove anche gli oggetti e i singoli elementi hanno una precisa funzione narrativa: i costumi (il corpetto stretto di Eleonora/Laura/Sandra è un abito di scena che contribuisce allo svenimento della protagonista, dovuto al fatto che è troppo stretto, certo, ma al contempo all’emozione provocata dalla sua storia d’amore), le parole (scritte, recitate, dette,…), la macchina da presa e gli attrezzi di scena che entrano e escono dal set come dalla vita reale (che essendo quella di attori professionisti, ha molto a che fare con tutto ciò), sottolineando molto naturalmente ciò che accade e rendendolo al contempo parte di un tutto. Ben amalgamato e cucinato, questo film conferma la vicinanza di Giuseppe Piccioni alla Nouvelle Vague che – se non ricordo male – diceva: “…il film deve parlare per metà della vita e per metà del cinema stesso”. Perfettamente riuscito.