Non ho mai ben capito se amo o meno il cinema di Emanuele Crialese. Quando ad esempio uscì Nuovomondo pensai “beh questo si è originale, forte” (ma ad onor del vero devo dire che a metà film pensai pure “che palle”, ma forse era un mio stato d’animo del momento…); è innegabile in ogni caso il suo talento di raccontare in modo interessante. Allo stesso tempo però risulta un regista urticante, fastidioso in qualche modo, direi a livello viscerale. Sabato hanno ritrasmesso Respiro, la sua pellicola con Valeria Golino, e ho capito fino in fondo il perché del “fastidio” che Crialese mi provoca (non solo a me credo, il suo approccio è certo intenzionale).
A parte gli argomenti, i personaggi e il modo narrativo di questo autore sui generis, quello che risulta disturbante a straniante a livello viscerale risiede senza dubbio in un’assenza, quella della mediazione.. Respiro – e il cinema di Crialese in genere – portano sulla pellicola la vita non mediata (e, aggiungerei, non mediatica), quella reale, viscerale e istintiva che per forza di cose colpisce ad altezza stomaco.
Una cifra che si riscontra nel linguaggio di questo film ma anche (e ancor più) nel filmato. I protagonisti non conoscono filtri nei loro rapporti, la loro vita è scandita dalla terra e dal mare in cui vivono, il loro tempo è quello di un pasto, dello spostamento in motorino da casa al mare o dell’attesa del marito che è fuori a pescare. La loro comunicazione, in un contesto se vogliamo verghiano, avviene attraverso il corpo: quello scabroso di Grazia (una Golino perfetta) che non sa piegare il suo essere al ruolo di madre tradizionale che la comunità vorrebbe, quello del figlio che subisce la punizione corporale per “dare soddisfazione” al padre del bambino offeso, quello ingombrante del marito, presenza-assenza che aleggia e pesa sulla famiglia.
È attraverso il corpo che si rivela il rapporto particolare ed esclusivo fra madre e figlio maggiore (scena clou: lui che le mette lo smalto ai piedi); è il corpo che provoca e imbarazza soprattutto le donne dell’isola, parenti incluse, che vogliono estrometterla cucendo su di lei una malattia come fosse un abito su misura. Ed è sempre il corpo (fatto tacere dalle iniezioni e dai sedativi) lo strumento attraverso cui la protagonista viene allontanata dal paese che – stretto nel suo tempo e nel suo spazio ancestrale – non può che rifiutare e allontanare da sé quella donna ingovernabile, bella e vitale che ha il potere di scardinare un mondo chiuso e impreparato.
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