Un blog sul cinema. E tutto il resto

venerdì 10 dicembre 2010

[libri] Haruki Murakami e l'immutabile mondo del non-eroe. Nel segno della pecora


Nei primi mesi di quest’anno è uscita una nuova edizione di un libro di Murakami Haruki (per rispettare l’ordine cognome-nome giapponese) che in Italia era già uscito oltre 25 anni fa. “Nel segno della pecora”, che ho deciso di rileggere in questa nuova edizione e traduzione perché ahimè ho ormai letto tutti i suoi libri tradotti in italiano, è un’opera con la quale come sempre il suo autore ci porta per mano – lentamente passo dopo passo – nel mondo unico ma riconoscibile e replicabile di libro in libro dei suoi personaggi, uomini spesso inetti e scoloriti che però incrociano situazioni e segni che hanno dell’incredibile. Un mondo fantastico che però non li travolge, ma li trascina a fatica, che li segna ma probabilmente non li cambia e non li allontana dalla loro distintiva “normalità”.

Qui il protagonista si trascina quotidianamente tra il suo lavoro che potrebbe essere creativo ma che lui fa del tutto per tenerlo a un livello inferiore e un bar, tra una birra e un panino, un frigo vuoto e un matrimonio fallito sul quale quasi non sembra farsi domande. Solo le orecchie della sua ragazza (dotate di un potere unico e particolare) illuminano di tanto in tanto con un bagliore inesplicabile la sua monotona quotidianità.

Poi qualcosa di incredibile accade nella sua vita, qualcosa di violento e pericoloso che arriva sotto forma di una pecora che diventa fonte di scoperte e accadimenti a catena. Ma se nelle mani di un altro scrittore tutto ciò avrebbe preso il sopravvento (come accade sempre quando in ballo c’è il fantastico e l’inafferrabile), Murakami fa scorrere tutti gli elementi nei binari del suo non-eroe che di libro in libro torna sotto diverse sembianze, così come i gatti o il sottofondo della città assordante e vuota ad un tempo che popolano le sue storie. Ed è questo che per me – sopra ogni altra cosa – lo rende grande.

lunedì 13 settembre 2010

[cinema] Intelligente, sagace, ironico. Au revoir monsieur Chabrol…


Alla notizia di ieri – quella della morte di Claude Chabrol – la mia memoria è corsa immediatamente a un film, tra i tanti, del regista francese: La cérémonie (in Italia, Il buio nelle mente).
Quella pellicola di una quindicina di anni fa se non ricordo male, mi colpì particolarmente; un film sulla dignità e sull’orgoglio, personale e di classe, sui rapporti, i legami e i meccanismi dell’amicizia, il tutto narrato con forza e (rara) lucidità.
Protagoniste due attrici intense come Isabelle Huppert e Sandrine Bonnaire. Se non lo avete mai fatto vi consiglio di rivedere questo film, come molti altri di Chabrol, uno dei nomi più interessanti e forse originali (anche se con alcune discontinuità) della Nouvelle Vague che, come molti colleghi dell’ “onda” era passato dalla precoce passione per il cinema (fu giovane proiezionista) all’animazione della discussione sullo stesso (nei Cahiers du Cinéma e non solo) per approdare poi alla regia. Da oggi anche monsieur Chabrol ci guarderà da chissà dove insieme ai suoi colleghi che hanno fatto grande il cinema: Kubrick, Truffaut, Rohmer, Antonioni, Bergman,… Che il loro sguardo illumini il nostro set.

mercoledì 28 luglio 2010

[avolteritornano]


Innanzitutto ben trovati… in molti mi hanno fatto notare (anche scrivendolo) che è da troppo che questo blog è inattivo: beh si in effetti me ne ero accorta… ma mi fa piacere che qualcuno lo noti e mi stimoli così a riprenderlo. Grazie.
Quindi eccomi di nuovo.
Sotto il solleone, si sa, il cinema assume nuovi volti: oltre alla sala climatizzata, c’è dvd in casa nella calura domenicale davanti al ventilatore acceso, cinema sotto le stelle delle rassegne estive che ripropongono – pur con un audio a volte terribile al quale non si è più abituati e tra una sigaretta del vicino e una signora che risponde al cellulare – i film della stagione appena conclusasi.
A volte anche in modo oculato, riproponendo film che sono stati distribuiti poco e male ma che meritano attenzione.
È così che ho appena visto “Amabili resti”, una pellicola che definirei adolescenziale. Non nel senso di saga per quindicenni, ma nel senso di film adolescente nella forma, sull’adolescenza, che fa parlare adolescenti.
Amabili resti ha questa caratteristica (che vogliamo considerare pregio): mette in scena l’adolescenza con tutte le sue sfaccettature, aspettative, problematiche prendendo a pretesto la storia di un omicidio, ancor più odioso perché riguarda un’adolescente, una vita in fiore che non avrà mai la possibilità di sbocciare. Tutto l’andamento del film assume i caratteri e l’età della protagonista: così come lei è sospesa in un limbo tra l’essere bambina e l’essere donna, così il film che la racconta è spesso sospeso tra generi, forme e rappresentazioni.
La “ragazza Salomon” vorrebbe diventare fotografa, vorrebbe baciare il ragazzo che le piace,… potenzialmente (come questa sceneggiatura che prende mille strade) potrebbe andare ovunque, intraprendere mille strade. Se a fermarla non ci fosse un adulto (il suo carnefice) che costruisce case di bambola, nel quale è rimasto uno strano, perverso, irrisolto e malato spirito fanciullesco.

venerdì 23 aprile 2010

[cinema] La verità della finzione ne “La vita che vorrei"


Giuseppe Piccioni è un autore vero, uno di quei rari (molto rari alle nostre latitudini) registi capaci di prenderti per mano e portarti dentro a una storia, farti dialogare con i suoi protagonisti, persino farti interagire con tutto ciò che è in scena. Ho appena recuperato uno dei suoi pochi (credo di non averne visto solo un altro) film che avevo perso, “La vita che vorrei”, che conferma tutto ciò.
Si tratta di una storia d’amore e di “interazione” umana, raccontata, recitata e mostrata a più livelli: quello degli attori (bravi) del film, quello dei protagonisti della storia principale e quello dei protagonisti del film in costume che si sta girando (ciascuno è uno e trino in questo film).
Un gioco di livelli che convince e funziona; un discorso ben impiantato dove anche gli oggetti e i singoli elementi hanno una precisa funzione narrativa: i costumi (il corpetto stretto di Eleonora/Laura/Sandra è un abito di scena che contribuisce allo svenimento della protagonista, dovuto al fatto che è troppo stretto, certo, ma al contempo all’emozione provocata dalla sua storia d’amore), le parole (scritte, recitate, dette,…), la macchina da presa e gli attrezzi di scena che entrano e escono dal set come dalla vita reale (che essendo quella di attori professionisti, ha molto a che fare con tutto ciò), sottolineando molto naturalmente ciò che accade e rendendolo al contempo parte di un tutto. Ben amalgamato e cucinato, questo film conferma la vicinanza di Giuseppe Piccioni alla Nouvelle Vague che – se non ricordo male – diceva: “…il film deve parlare per metà della vita e per metà del cinema stesso”. Perfettamente riuscito.

giovedì 18 marzo 2010

[varia umanità] Voto vendesi purché…


Elezioni incombenti, ridondanti e autoreferenziali… inutili? Beh statisticamente - facendo mente locale sugli ultimi anni del nostro povero Paese sempre più nel precipizio e non sull’orlo del medesimo - possiamo solo dire di si.
Allora che ne facciamo del nostro voto? Propongo di darlo al primo candidato che non scrive su depliant e volantini (i programmi chiari ed espliciti sono rari ormai, qualcuno potrebbe rinfacciarli in futuro) “innovazione” e “ricerca”, le parole più abusate in questa campagna.
Ma anche, irrimediabilmente, sconosciute e mai attuate.

venerdì 12 febbraio 2010

[cinema] Eric Rohmer, lo straordinario del banale


Ci siamo, cioè ci sono. Anche se dopo qualche settimana di silenzio, rieccoci qua a parlare di cinema e dintorni.
Vorrei dedicare il primo post del 2010 (capperi! Iniziamo l’anno con un mese e mezzo di ritardo! Vabbè, il tempo è relativo come insegna il buon cinema…) al ricordo di uno dei più grandi affabulatori del cinema, un uomo unico in grado di gettare uno sguardo assolutamente originale sul mondo: Eric Rohmer.
A un mese dalla sua scomparsa vorrei invitarvi a vedere e rivedere i gioielli che questo incredibile regista ci ha lasciato. Dal Raggio Verde ai Racconti Morali a quelli delle Quattro Stagioni fino agli ultimi lavori come La Nobildonna e il Duca, Rohmer ci ha regalato un mondo incredibile, leggero e profondo ad un tempo, uno sguardo scanzonato, ironico ma anche indulgente sull’amore, l’amicizia la fedeltà e il tradimento, ovvero sulla banale quotidianità. Una quotidianità che naturalmente ogni giorno deve fare i conti con ciascuno di noi, la nostra vita, i nostri comportamenti e le nostre relazioni e che il regista si è sempre divertito a scandagliare senza mai sfiorare nemmeno il moralismo ma riuscendo come nessun altro a farci lo straordinario che si cela nel banale (nel senso stretto del termine).
Rohmer lo ha fatto con leggerezza e arguzia, facendo leva soprattutto sul fulcro della nostra quotidianità, la parola.
La parola è esternazione, inganno, tentazione; attraverso le parole infatti proviamo a farci capire ma anche a imporci, ad affermare le nostre idee, a ingannare e ingannarci. Le parole spesso sono in contrasto con i sentimenti, diciamo una cosa pensandone un’altra. Ho detto, mi ha detto, ti dico… ogni giorno la parola è il continuo tentativo che facciamo di organizzare i nostri pensieri e i nostri sentimenti, spesso – ci ha dimostrato il regista – confusi e in contrasto tra loro.
Perché le parole sono inafferrabili e l’essere umano ancor di più.
Viva Rohmer.