Un gioco interessante che il regista sembra invitarci a fare ad ogni nuova scena. Lo avete notato?
giovedì 11 dicembre 2008
[cinema] Soggettive oggettive, ma "nessuna verità"
Un gioco interessante che il regista sembra invitarci a fare ad ogni nuova scena. Lo avete notato?
martedì 18 novembre 2008
[cinema] Buio e spaventoso come il matrimonio: Cedric Kahn
Ho visto “Luci nella notte”; ovvero le luci delle auto e delle insegne nella notte della città. Ma soprattutto luci della vita e del suo essere incidentale nella notte della routine piatta e fredda dl matrimonio. O forse è il contrario, chissà.
Nel film algido, inquietante e inquieto di Cedric Kahn c’è tutto l’orrore della routine quotidiana, il fragile equilibrio di un rapporto di coppia che qui è rappresentato con la metafora del viaggio. E del viaggio la vita matrimoniale ha tutti i caratteri: è un viaggio che si fa chiusi in un abitacolo, lungo una strada che pare sempre uguale e monotona ma che nasconde un pericolo ad ogni curva, in un difficile equilibrio tra percorsi dritti e sbandamenti. I dialoghi sono secchi, sospesi, alternano domande retoriche a risposte prevedibili, all’interno di una quotidiana ripetizione che chiude la due parti nella forma: del lavoro, delle vacanze e delle feste comandate, del traffico, delle bugie e delle mezze verità.
A tutto ciò si aggiungono i figli, quasi mai visibili, chiamati in campo dalle parole dei genitori per i quali sembrano spesso rappresentare più che altro un alibi.
Alti e bassi, piccole e grandi tensioni che tutti conoscono e che di fronte alle difficoltà che vengono dall’esterno diventano all’improvviso quasi piacevoli. La coppia e la famiglia come rifugio dai pericoli e dalle minacce esterne: amore che tutto accoglie e protegge o “comodo” scudo contro le minacce?
Il finale apparentemente conciliante e ottimista appare più destabilizzante che mai. Perché la vita a due è un’avventura piatta piena di dossi.
domenica 9 novembre 2008
[cinema] Accorrete numerosi: c’è WALL_E!
Un mini post per un suggerimento: se non lo avete ancora fatto correte al cinema a vedere Wall-e. La ormai nota bravura di “quelli della Pixar” stavolta tocca vette inusitate in un film che (poco per i bambini - per i riferimenti - e molto per i grandi) è una vera epifania. Dai primi venti silenziosi ma eloquentissimi e ricchi minuti alla fine ci si trova davanti a un’opera che commuove diverte cita svela annota; e soprattutto ci fa vedere il nostro “mondo spazzatura” come è e - ahi noi - come sarà. Imperdibile.
martedì 21 ottobre 2008
[cinema] Belli sempre. Bunuel, De Oliveira e la vita fuori tempo.
Se avete mal di denti (meglio, di mandibola), mal di testa e vi sentite a pezzi probabilmente vi siete beccati pure voi il virus. A me fa compagnia da cinque giorni e spero mi lasci presto... Il lato positivo dell’influenza - a volerlo trovare - sta nel fatto che tra un mal di testa e l’altro si riesce a leggere e a vedere un po’ di film.
Un film incredibile. Naturalmente.
Ancora una volta credo di aver capito che il grande cinema e i grandi cineasti si vedono certamente da molte cose, ma soprattutto da come lavorano con le categorie di spazio e tempo (beh si Aristotele...).
Il film riprende la storia dei protagonisti di “Belle de jour” circa quarant’anni più tardi, in una Parigi quasi irreale come irreale è l’inizio del film che prende avvio in un teatro, luogo deputato all’assurdo per eccellenza, dove tutto può avverarsi, anche un incontro così imprevisto.
Sin dall’inizio il tempo e lo spazio sono delineati dai suoni e dai rumori (ma anche dalle pause e dai lungi silenzi): il concerto iniziale che sostituisce la banalità di una trama da raccontare, i suoni della città che coprono un dialogo cercato e temuto ad un tempo, il rumore (quasi una danza) delle posate nel corso di quella cena che dovrebbe essere rivelatrice ma che è solo una beffa, le parole taciute che però continuano ad aleggiare sui due protagonisti, sul loro passato e su ciò che li lega oltre il tempo.
Tutti suoni e silenzi infinitamente piccoli ma assordanti, che sembrano voler dire che l’assurdità della vita e del destino non possono essere spiegate, che ogni parola è inutile, che la vita e il cinema (quell’arte che lega i due maestri, Bunuel e De Oliveira) non hanno soluzione né spiegazione che possa soddisfarci.
In questa pellicola nulla è rivelato (sarebbe inutile e presuntuoso per noi umani pensare di farlo) ma tutto ironicamente trascorre, senza che noi possiamo farci nulla; la verità non è di nostra competenza e forse l’unica risposta possibile sta nel surreale (cifra di Bunuel, qui simboleggiato dal gallo) che ci ricorda la nostra condizione e l’ineluttabilità degli eventi e della direzione che prende la vita di ciascuno.
L’incontro dopo tanti anni, la verità mai svelata, la vendetta inutile, la cena assurda, il cameriere che arriva tardi con le candele; sono tutti segni della vita che è - come quella di questi personaggi - quasi sempre fuori tempo.
martedì 7 ottobre 2008
[sdvq] Datemi un giorno di 48 ore!
Beh si, più o meno secondo i miei calcoli con 48 ore riuscirei a fare almeno la metà di ciò che vorrei! Me credo che la richiesta non sarà accolta... In questi giorni sono così "piena" che non riesco ad aggiornare il mio povero blog. Mi rifarò prestissimo...
Magari - visto che le 48 ore al giorno non le avrò mai - potrei capovolgere il tempo a mio favore e scambiare il giorno con la notte; non so se ci sarebbe un effettivo guadagno ma ho notato che spesso di notte si può anche accendere la Tv (cosa che invece faccio non più di 3 o 4 volte al mese)...
Sentite qua: alla mezzanotte di domani trasmettono "V per Vendetta", giovedì alle 3 passano "L'imbalsamatore" di Garrone, venerdì alle 2.30 "The million dollar hotel", mentre sabato alle 1.30 fanno vedere "Elephant" di Van Sant e addirittura alle 2.45 "Almost famous".
Non sarà che tra i tristi, grigi e accondiscendenti programmatori del palinsesto televisivo (così li immagino io) si annovera un piccolo cinefilo che però ha paura di venire alo scoperto ed essere tacciato di proporre qualcosa di qualità?
Ho detto qualità? noooo no no io non sono stata eh
domenica 21 settembre 2008
[cinema] Devo inventare una nuova me stessa! (Burn after reading)
Dopo averci lasciato con un mondo governato dalla pura follia innescata dalla casualità in “Non è un paese per vecchi”, qui i fratelli registi ci mettono di fronte all’ineluttabile imbecillità dell’essere umano medio(cre).
Laddove a decidere le sorti del primo capitato (e per estensione del mondo) era un folle talmente lucido da decidere se uccidere o meno con il testa-o-croce delle monetina, qui a innescare il meccanismo fino a intrecciarsi addirittura col potere (rappresentato dalla CIA) è una donna di mezza età che insegue l’amore cercando uomini su Internet. Ma il concetto di casualità che governa il mondo rimane al centro.
Grazie ad esso la suddetta donna e il suo amico ipod-dipendente tutto-muscoli-e-zero-cervello possono imbattersi in una serie di situazioni che potrebbero addirittura minare la sicurezza nazionale. La mediocrità è diffusa, ingovernabile, pericolosa.
Tutti i personaggi del film, che per il loro essere sopra le righe somigliano molto a quelli di John Landis - girano attorno alla propria pochezza: c’è chi (Clooney) abborda ogni donna che incontra per poi fare jogging dopo il sesso, in una coazione a ripetere che lo rende sempre più incapace di risolvere il rapporto con la moglie, che a sua volta lo tradisce; chi (Malkovich) non riesce a fronteggiare i propri fallimenti e per questo rovina se stesso e la propria vita; chi (Pitt) pare essere tutto corpo e avere una testa utile solo a tener su i capelli; e chi (la McDormand) ha come unico obiettivo quello di farsi quattro interventi di chirurgia estetica perché - dice - “Devo reinventare me stessa”.
E’ questa la frase-cardine del film che pare presa in prestito a uno slogan mediocre di un qualche prodotto cosmetico mediocre.
Perché il mondo è davvero tale: se ci riflettiamo un attimo, quelli che incontriamo tutti i giorni non somigliano più spesso ai personaggi di questo film che a un Nobel per la letteratura o la fisica?
lunedì 8 settembre 2008
[cinema] Il corpo come anarchia: il mito dei Blues Brothers
In questo periodo sono stata coinvolta (assai volentieri) in un progetto che prevede una rassegna di film in lingua originale (per la cronaca a Spoleto). La scorsa settimana in programma c’era la proiezione di uno dei miti del cinema di tutti i tempi: “The Blues Brothers”.
Tutto il film è ovviamente un inno all’anarchia e al rifiuto delle regole: le regole di un’America consumistica (si rade al suolo un centro commerciale, mecca del consumismo!), repressiva e pronta a mettere mano alle armi in ogni momento, bigotta e spesso razzista, che si contrappone a un’America (e a un mondo) che rischia di scomparire (quello cristallizzato nel periodo dell’infanzia che nel film è rappresentato dall’orfanatrofio).
A contrapporsi ai riti e miti del mondo che un tempo avremmo chiamato WASP (incarnato dai sopraccitati simboli) c’è un’anima R&B, un cuore soul che irrompe, grida, scuote quel mondo e lo travolge col suo ritmo irrefrenabile e la sua musica esplosiva. Ma c’è anche (se non soprattutto) la rivincita su tempo e spazio di un fattore ingombrante, il più ingombrante per ogni essere umano: il corpo.
In The Blues Brothers li corpo è un elemento anarchico che, ribellandosi alle leggi fisiche, contravviene a tutte le regole, si libera di ogni peso, sfida e vince la gravità.
Solo così - sembrano dirci i fratelli Blues - facendo del corpo un oggetto leggero e flessibile tanto da sembrare un cartoon, si può essere padroni del proprio destino e della propria anima. Anche se poi per una tale libertà (in fondo spaventosa come ogni vera utopia) alla fine la società chiede sempre un conto da pagare.
domenica 24 agosto 2008
[komunicazione] Un’idea 10 anni oltre... (le mutande!)
Un po’ per deformazione professionale e un po’ per interesse e curiosità personali, osservo attentamente tutto ciò che mi capita sottomano e davanti agli occhi in tema di comunicazione: pubblicità, spot, cartelloni, flyer, brochure. Grandi campagne internazionali e piccoli lavori locali non importa, guardo tutto.
lunedì 11 agosto 2008
[cinema] Les amantes reguliers. Se l’immagine è arte le dimensioni non contano
Veramente sono sempre stata riluttante all’idea di vedere un film in uno schermo di pochi centimetri... mi pareva una cosa inconcepibile e addirittura poco etica (!).
Ma l’altra sera nell’ipod ho deciso di vedere (anzi rivedere) un film di 4 anni fa: “Les amantes reguliers” di Phlippe Garrel.
E ho scoperto che la pura arte di quei fotogrammi trascende ogni confine, compreso quello fisico dello schermo.
Non si può infatti porre limite alla forza e alla poesia delle immagini di Garrel, così come non si può imbrigliare il film nella rappresentazione di un tempo simbolico e mitico come quello del 1968.
Perché il tempo di questa pellicola non è il tempo del racconto cinematografico né quello della storia; ma è un tempo assolutamente e puramente filmico, una dimensione creata dal regista-autore che, soffermandosi su un’inquadratura o un sorriso o uno sguardo non il tempo utile per la plausibilità o la durata reale dello stesso, bensì quello necessario per esprimere un discorso e il suo significato, crea l’opera. Questa è arte.
Senza ribadire la distanza cosmica che separa Les amantes dal Bertolucciano The Dreamers (francamente un film come tanti di una certa epoca, con il ’68 banalmente sullo sfondo), ci si rende conto davvero - anche dalla minima superficie di un ipod - della forza emanata da ogni inquadratura che non appare costretta e sacrificata da uno spazio così ridotto, ma anzi allude ancor più nettamente a ciò che resta fuori campo ma che al contempo è evocato e chiamato in causa in ogni istante... uno sguardo che allude a possibilità infinite, un gesto che richiama lo spazio e le sue possibili coordinate, una nuvola di fumo d’oppio che sottende la realtà di un sogno...
Provate a farlo con un altro film!
martedì 29 luglio 2008
[cinema] Il cavaliere oscuro. Ovvero le ali sulla città dopo l’11 settembre
Ma cerchiamo di andare con ordine. Sin dalla prima scena della rapina il motivo dello sdoppiamento si fa centrale: ci sono più rapinatori tutti mascherati (un po’ moduli un po’ cloni del Joker) che si eliminano uno con l’altro facendo il gioco della “matrice” Joker; la rapina avviene in una banca che però è una banca speciale in quanto proprietà della mafia; Batman (già doppio per natura, pipistrello di notte e miliardario di giorno) si moltiplica confondendo lo spettatore; la moneta che Harvey lancia - il doppio testa/croce - ha in realtà due teste; la faccia stessa di Harvey appena scampato all'incendio dell’ospedale diventa doppia, per metà la sua e per metà teschio.
E questo per quanto concerne sembianze e tratti distintivi.
Andando più avanti si comincia a delineare uno scenario al quale siamo abituati e assuefatti. Il bene non è sempre tale al 100%, anzi, in percentuale variabile si vela di male, a volte per necessità a volte per meschinità o egoismo. Ma il bene assoluto non c’è.
Già questo è segno dei tempi recentissimi, dove tutto e tutti paiono essere implicati nel male (anche noi con il nostro agire quotidiano abbiamo pesanti colpe).
Quindi non più bianco o nero ma un grigio (plumbeo) diffuso un po’ ovunque. Un humus dove il male - qui impersonato da Joker - attecchisce benissimo fino a sguazzarci.
Come accaduto nel 2001 per le torri gemelle di NY, gli attacchi arrivano inaspettati (perché senza apparente motivo) e colpiscono i punti nevralgici di Gotham.
Anche visivamente, i vetri rotti, le finestre che esplodono e i palazzi che si accasciano su se stessi ci riportano all’11 settembre.
La città (Gotham è rappresentazione della città contemporanea) - come NY e come ogni metropoli da allora - è vulnerabile e nuda, esposta ad attacchi prima impensabili. Le inquadrature mostrano uffici e case con immense vetrate che enfatizzano questa “nudità”.
Batman con i suoi strumenti sofisticati e i suoi poteri (dotazioni occidentali) pare impotente al cospetto della follia pura e fine a se stessa del male incarnato dal Joker.
Un Joker che non è più quello che conoscevamo, il fool di gomma con il sorriso beffardo stampato in bocca, fumetto quasi rassicurante nella sua riconoscibile ripetività, che faceva convergere l’azione e l’energia tutta su Batman.
Questo Joker è violento, ha una faccia poco rassicurante dove il trucco colorato e pop ha lasciato spazio a una maschera sbavata e consunta e dove il sorriso è un taglio profondo di una lama (ferita che ogni volta assume cause diverse nei suoi racconti ma che è sempre dovuta a violenze, dolori o soprusi).
Un male che non si può incasellare né arginare, come quello dei terroristi dell’11 settembre che - nonostante gli sforzi americani - ancora non hanno un volto preciso e soprattutto un male che non si può battere perché non ha nulla da perdere e colpisce indistintamente tutto e tutti (“Il bello del caos è che è equo”).
La scena in cui il Joker galleggia appeso nell’aria sta a dimostrarci che la paura è lì in agguato e può palesarsi in ogni momento, anche attraverso i gesti delle persone che non ci aspettiamo.
Perché - dice Joker - “La follia è come la gravità, basta solo una piccola spinta”.
BOOM!
mercoledì 23 luglio 2008
[cinema] Donne (vere) tra tragedie, fantasmi, malattie e piatti da lavare. Volver: questa è vita!
La cosa che più mi ha colpito nel film di Almodovar - sin dalla prima memorabile scena al cimitero - è l'affresco che Pedro fa della vita, del vivere quotidiano (la cosa più semplice e più complessa che ci sia). Le protagoniste (tutte bravissime e perfette con in testa l’icona Carmen Maura e un’ottima Cruz) sono l’incarnazione stessa della vita, quella vera.
La vita che è dominata dalla tragedia (in senso classico), che fa convivere vivi e morti, fantasmi (reali o presunti non importa) del passato con ombre del presente, che fa incontrare morte e malattia con la femminilità emozionante di una abito colorato o di una scarpa col tacco alto.
La vita che - ancora una volta - è dominata dalla donna che supera difficoltà e ostacoli, ama senza riserve, è solidale con altre donne e che vive sospesa tra una faccenda in cucina, un lontano ma vivido ricordo e lo spirito d’iniziativa necessario per affrontare il futuro.
Una donna forte e decisa che è orgogliosa anche quando è colpita dalla malattia (il rifiuto di Agustina alla tv spazzatura) e che ha il potere di dare la morte a un uomo che la merita (ma che con sensibilità femminile, dopo averlo lasciato in congelatore per giorni ha un moto di compassione e trova per lui una sepoltura il più degna possibile).
Trovo meravigliose queste donne (e nulla c’entra con certo femminsmo!) che tra una tintura ai capelli improvvisata in casa e un lavoro precario inventato dal nulla tirano avanti, forti fragili e sempre affascinanti.
Come la Magnani giustamente omaggiata con la citazione di “Bellissima” che mostra la donna più forte, orgogliosa e fiera del cinema di tutti i tempi.
W le donne! (e chi le sa raccontare).
lunedì 14 luglio 2008
[cinema] Per favore non chiedermi la trama
Domande apparentemente banali e innocue che però mi mettono sempre in difficoltà (lo dichiaro così magari qualcuno me la risparmia la prossima volta!).
Dal momento che la domanda è legittima, il problema è sicuramente mio... cerco allora una spiegazione. La prima che mi viene in mente è che - magari inconsciamente - prediligo film dove la storia intesa come trama è secondaria, può esserci o meno, ma non è mai questo che fa a differenza...
Come si fa a riassumere a parole Mullholland Drive o Deserto Rosso? Come spiegare che Won kar-wai è uno dei più grandi innovatori del cinema provando a raccontare una storia che non sembra (e forse non lo è) scritta in un copione ma che nasce e si materializza attraverso la cinepresa?
Beh a me pare assai difficile. Ma difficoltà (o incapacità) personale a parte, mi chiedo il perché di queste domande ricorrenti... perché dopo oltre un secolo di arte cinematografica e dopo le sue trasformazioni escatologiche filosofiche tecnologiche e linguistiche abbiamo ancora bisogno di sapere “che genere è?” “di che parla?”. Mi sembrano quesiti impossibili anche per la pittura o la scultura, per quale motivo dovrebbero trovare risposta per la settima arte?
Forse la causa sta nel nostro bisogno di catalogare ed etichettare (ancora!?); forse nella poca disponibilità a lasciarsi andare davanti a qualcosa di ignoto che può rivelarsi un’emozione troppo forte; forse nella paura di non essere all’altezza degli stimoli e delle provocazioni che vengono da una pellicola; forse nella pigrizia che pone limiti alla voglia di riflettere, scoprire legami e riferimenti. Forse nell’abitudine alla televisione che tutto definisce e prepara, che ci conforta perché se anche ci stacchiamo dallo schermo per andare in bagno o per una settimana di vacanza, le storie e le trame sono lì, inamovibili, prevedibili e immutate, rassicuranti.
Personalmente preferisco faticare un po’ di più. A volte - credetemi - dà una grande soddisfazione e un inatteso piacere.
lunedì 7 luglio 2008
[fotografia] Il fascino (in)discreto del bianco&nero
Ho riflettuto su questa cosa da quando lessi (secoli fa!) “La camera chiara”, perché spiega bene l’effetto che hanno su di me le fotografie. Solo quelle in bianco e nero però.
Quelle a colori, per quanto belle, suggestive e artistiche non esercitano su di me lo stesso fascino.
Questa cosa è curiosa credo... non so se qualcuno di voi provi lo stesso.
La spiegazione che mi sono data riflettendoci un po’ è questa: le foto a colori mi danno l’idea della realtà mentre quelle in b/n mi danno... l’idea dell’idea!
Mi spiego meglio. Mentre il colore si riferisce sempre all'oggetto che rappresenta (ad esempio un tavolo verde è quel tavolo, quello e non altri), il b/n - rinunciando alla riproduzione fedele del dato reale - opera un’astrazione e suggerisce un’idea meno contestualizzata (il tavolo che vedo può essere di qualunque colore e quindi anche di qualsiasi epoca e ubicato in qualsiasi luogo).
In sintesi: il colore probabilmente toglie molte possibilità di immaginazione e di interazione a chi guarda.
Oltretutto, essendo la foto per definizione un’icona della morte (visto che cattura un momento che mai più tornerà, congelandolo per sempre) il colore, per la sua fedeltà, appare un po’ inquietante (ma forse solo a me!), mentre il b/n sembra regalare al soggetto fotografato una sorta di eternità, un valore che va oltre il soggetto-oggetto.
In fondo è lo stesso effetto che suscitano spesso i film in bianco e nero.