Un blog sul cinema. E tutto il resto

giovedì 11 dicembre 2008

[cinema] Soggettive oggettive, ma "nessuna verità"

L'ultimo film di Ridley Scott "Body of lies" (in italiano Nessuna verità) è a metà strada tra Spy game e Syriana. Detto ciò la cosa più interessante della pellicola mi è parso il punto di vista.
Le scene e le immagini che si susseguono sono spesso oggettive a tutti gli effetti e non il punto di vista di qualcuno che guarda; in realtà sembrano un susseguirsi di soggettive e oltretutto di un "personaggio" diverso ogni volta. Il fatto è che questo resta difficile da identificare: chi è? la popolazione? la città? noi? un osservatore immaginario? Insomma... chi guarda chi?
Un gioco interessante che il regista sembra invitarci a fare ad ogni nuova scena. Lo avete notato?

martedì 18 novembre 2008

[cinema] Buio e spaventoso come il matrimonio: Cedric Kahn


Ho visto “Luci nella notte”; ovvero le luci delle auto e delle insegne nella notte della città. Ma soprattutto luci della vita e del suo essere incidentale nella notte della routine piatta e fredda dl matrimonio. O forse è il contrario, chissà.

Nel film algido, inquietante e inquieto di Cedric Kahn c’è tutto l’orrore della routine quotidiana, il fragile equilibrio di un rapporto di coppia che qui è rappresentato con la metafora del viaggio. E del viaggio la vita matrimoniale ha tutti i caratteri: è un viaggio che si fa chiusi in un abitacolo, lungo una strada che pare sempre uguale e monotona ma che nasconde un pericolo ad ogni curva, in un difficile equilibrio tra percorsi dritti e sbandamenti. I dialoghi sono secchi, sospesi, alternano domande retoriche a risposte prevedibili, all’interno di una quotidiana ripetizione che chiude la due parti nella forma: del lavoro, delle vacanze e delle feste comandate, del traffico, delle bugie e delle mezze verità.

A tutto ciò si aggiungono i figli, quasi mai visibili, chiamati in campo dalle parole dei genitori per i quali sembrano spesso rappresentare più che altro un alibi.

Alti e bassi, piccole e grandi tensioni che tutti conoscono e che di fronte alle difficoltà che vengono dall’esterno diventano all’improvviso quasi piacevoli. La coppia e la famiglia come rifugio dai pericoli e dalle minacce esterne: amore che tutto accoglie e protegge o “comodo” scudo contro le minacce?

Il finale apparentemente conciliante e ottimista appare più destabilizzante che mai. Perché la vita a due è un’avventura piatta piena di dossi.

domenica 9 novembre 2008

[cinema] Accorrete numerosi: c’è WALL_E!


Un mini post per un suggerimento: se non lo avete ancora fatto correte al cinema a vedere Wall-e. La ormai nota bravura di “quelli della Pixar” stavolta tocca vette inusitate in un film che (poco per i bambini - per i riferimenti - e molto per i grandi) è una vera epifania. Dai primi venti silenziosi ma eloquentissimi e ricchi minuti alla fine ci si trova davanti a un’opera che commuove diverte cita svela annota; e soprattutto ci fa vedere il nostro “mondo spazzatura” come è e - ahi noi - come sarà. Imperdibile.

martedì 21 ottobre 2008

[cinema] Belli sempre. Bunuel, De Oliveira e la vita fuori tempo.


Se avete mal di denti (meglio, di mandibola), mal di testa e vi sentite a pezzi probabilmente vi siete beccati pure voi il virus. A me fa compagnia da cinque giorni e spero mi lasci presto... Il lato positivo dell’influenza - a volerlo trovare - sta nel fatto che tra un mal di testa e l’altro si riesce a leggere e a vedere un po’ di film.
Per esempio io sono riuscita a vedermi “Belle Toujours” (ahimè l’avevo perso nel 2006), l’omaggio del portoghese Manoel De Oliveira al grande Bunuel.
Un film incredibile. Naturalmente.
Ancora una volta credo di aver capito che il grande cinema e i grandi cineasti si vedono certamente da molte cose, ma soprattutto da come lavorano con le categorie di spazio e tempo (beh si Aristotele...).
Il film riprende la storia dei protagonisti di “Belle de jour” circa quarant’anni più tardi, in una Parigi quasi irreale come irreale è l’inizio del film che prende avvio in un teatro, luogo deputato all’assurdo per eccellenza, dove tutto può avverarsi, anche un incontro così imprevisto.
Sin dall’inizio il tempo e lo spazio sono delineati dai suoni e dai rumori (ma anche dalle pause e dai lungi silenzi): il concerto iniziale che sostituisce la banalità di una trama da raccontare, i suoni della città che coprono un dialogo cercato e temuto ad un tempo, il rumore (quasi una danza) delle posate nel corso di quella cena che dovrebbe essere rivelatrice ma che è solo una beffa, le parole taciute che però continuano ad aleggiare sui due protagonisti, sul loro passato e su ciò che li lega oltre il tempo.
Tutti suoni e silenzi infinitamente piccoli ma assordanti, che sembrano voler dire che l’assurdità della vita e del destino non possono essere spiegate, che ogni parola è inutile, che la vita e il cinema (quell’arte che lega i due maestri, Bunuel e De Oliveira) non hanno soluzione né spiegazione che possa soddisfarci.
In questa pellicola nulla è rivelato (sarebbe inutile e presuntuoso per noi umani pensare di farlo) ma tutto ironicamente trascorre, senza che noi possiamo farci nulla; la verità non è di nostra competenza e forse l’unica risposta possibile sta nel surreale (cifra di Bunuel, qui simboleggiato dal gallo) che ci ricorda la nostra condizione e l’ineluttabilità degli eventi e della direzione che prende la vita di ciascuno.
L’incontro dopo tanti anni, la verità mai svelata, la vendetta inutile, la cena assurda, il cameriere che arriva tardi con le candele; sono tutti segni della vita che è - come quella di questi personaggi - quasi sempre fuori tempo.

martedì 7 ottobre 2008

[sdvq] Datemi un giorno di 48 ore!


Beh si, più o meno secondo i miei calcoli con 48 ore riuscirei a fare almeno la metà di ciò che vorrei! Me credo che la richiesta non sarà accolta... In questi giorni sono così "piena" che non riesco ad aggiornare il mio povero blog. Mi rifarò prestissimo...
Magari - visto che le 48 ore al giorno non le avrò mai - potrei capovolgere il tempo a mio favore e scambiare il giorno con la notte; non so se ci sarebbe un effettivo guadagno ma ho notato che spesso di notte si può anche accendere la Tv (cosa che invece faccio non più di 3 o 4 volte al mese)...
Sentite qua: alla mezzanotte di domani trasmettono "V per Vendetta", giovedì alle 3 passano "L'imbalsamatore" di Garrone, venerdì alle 2.30 "The million dollar hotel", mentre sabato alle 1.30 fanno vedere "Elephant" di Van Sant e addirittura alle 2.45 "Almost famous".
Non sarà che tra i tristi, grigi e accondiscendenti programmatori del palinsesto televisivo (così li immagino io) si annovera un piccolo cinefilo che però ha paura di venire alo scoperto ed essere tacciato di proporre qualcosa di qualità?
Ho detto qualità? noooo no no io non sono stata eh

domenica 21 settembre 2008

[cinema] Devo inventare una nuova me stessa! (Burn after reading)


Il nostro è un mondo mediocre popolato da gente mediocre (quando va bene). Sembrano dirci soprattutto questo i Coen Brothers con il loro ultimo film.
Dopo averci lasciato con un mondo governato dalla pura follia innescata dalla casualità in “Non è un paese per vecchi”, qui i fratelli registi ci mettono di fronte all’ineluttabile imbecillità dell’essere umano medio(cre).
Laddove a decidere le sorti del primo capitato (e per estensione del mondo) era un folle talmente lucido da decidere se uccidere o meno con il testa-o-croce delle monetina, qui a innescare il meccanismo fino a intrecciarsi addirittura col potere (rappresentato dalla CIA) è una donna di mezza età che insegue l’amore cercando uomini su Internet. Ma il concetto di casualità che governa il mondo rimane al centro.
Grazie ad esso la suddetta donna e il suo amico ipod-dipendente tutto-muscoli-e-zero-cervello possono imbattersi in una serie di situazioni che potrebbero addirittura minare la sicurezza nazionale. La mediocrità è diffusa, ingovernabile, pericolosa.
Tutti i personaggi del film, che per il loro essere sopra le righe somigliano molto a quelli di John Landis - girano attorno alla propria pochezza: c’è chi (Clooney) abborda ogni donna che incontra per poi fare jogging dopo il sesso, in una coazione a ripetere che lo rende sempre più incapace di risolvere il rapporto con la moglie, che a sua volta lo tradisce; chi (Malkovich) non riesce a fronteggiare i propri fallimenti e per questo rovina se stesso e la propria vita; chi (Pitt) pare essere tutto corpo e avere una testa utile solo a tener su i capelli; e chi (la McDormand) ha come unico obiettivo quello di farsi quattro interventi di chirurgia estetica perché - dice - “Devo reinventare me stessa”.
E’ questa la frase-cardine del film che pare presa in prestito a uno slogan mediocre di un qualche prodotto cosmetico mediocre.
Perché il mondo è davvero tale: se ci riflettiamo un attimo, quelli che incontriamo tutti i giorni non somigliano più spesso ai personaggi di questo film che a un Nobel per la letteratura o la fisica?

lunedì 8 settembre 2008

[cinema] Il corpo come anarchia: il mito dei Blues Brothers


In questo periodo sono stata coinvolta (assai volentieri) in un progetto che prevede una rassegna di film in lingua originale (per la cronaca a Spoleto). La scorsa settimana in programma c’era la proiezione di uno dei miti del cinema di tutti i tempi: “The Blues Brothers”.
Parlando del medesimo, e rivedendolo ancora una volta a 28 anni dalla sua uscita nelle sale, ho deciso di soffermarmi su un aspetto fondamentale del lavoro di Landis, uno degli elementi che hanno contribuito a renderlo il mito che è: l’anarchia (e come questo concetto viene affrontato).
Tutto il film è ovviamente un inno all’anarchia e al rifiuto delle regole: le regole di un’America consumistica (si rade al suolo un centro commerciale, mecca del consumismo!), repressiva e pronta a mettere mano alle armi in ogni momento, bigotta e spesso razzista, che si contrappone a un’America (e a un mondo) che rischia di scomparire (quello cristallizzato nel periodo dell’infanzia che nel film è rappresentato dall’orfanatrofio).
A contrapporsi ai riti e miti del mondo che un tempo avremmo chiamato WASP (incarnato dai sopraccitati simboli) c’è un’anima R&B, un cuore soul che irrompe, grida, scuote quel mondo e lo travolge col suo ritmo irrefrenabile e la sua musica esplosiva. Ma c’è anche (se non soprattutto) la rivincita su tempo e spazio di un fattore ingombrante, il più ingombrante per ogni essere umano: il corpo.
In The Blues Brothers li corpo è un elemento anarchico che, ribellandosi alle leggi fisiche, contravviene a tutte le regole, si libera di ogni peso, sfida e vince la gravità.
Solo così - sembrano dirci i fratelli Blues - facendo del corpo un oggetto leggero e flessibile tanto da sembrare un cartoon, si può essere padroni del proprio destino e della propria anima. 
Anche se poi per una tale libertà (in fondo spaventosa come ogni vera utopia) alla fine la società chiede sempre un conto da pagare.

domenica 24 agosto 2008

[komunicazione] Un’idea 10 anni oltre... (le mutande!)


Un po’ per deformazione professionale e un po’ per interesse e curiosità personali, osservo attentamente tutto ciò che mi capita sottomano e davanti agli occhi in tema di comunicazione: pubblicità, spot, cartelloni, flyer, brochure. Grandi campagne internazionali e piccoli lavori locali non importa, guardo tutto.
Così oggi mi è capitato il gadget che vedete nella foto: una borsa di tela - la shopper per intenderci - che una merceria regala ai suoi clienti per festeggiare i 10 anni di attività... visto cosa c’è scritto? Sfido i copy a trovare un pay off più chic... semplicemente fantastica!

lunedì 11 agosto 2008

[cinema] Les amantes reguliers. Se l’immagine è arte le dimensioni non contano


Per sopravvivere al caldo in città si sperimenta di tutto un po’. Avendo appena terminato uno degli ultimi libri di Murakami che mi restano di leggere (ne mancano ancora un paio all’appello), non potevo iniziarne subito un altro (soprattutto con certi autori ho bisogno prima di far decantare storie personaggi e sensazioni); quindi ho deciso di infilare qualche film nell’ipod e vederlo in terrazza con la cuffia... un tipo di fruizione che mi pare accettabile alle 3 di notte di una giornata bollente per arrecare disturbo ai vicini e non dare nell’occhio!
Veramente sono sempre stata riluttante all’idea di vedere un film in uno schermo di pochi centimetri... mi pareva una cosa inconcepibile e addirittura poco etica (!).
Ma l’altra sera nell’ipod ho deciso di vedere (anzi rivedere) un film di 4 anni fa: “Les amantes reguliers” di Phlippe Garrel.
E ho scoperto che la pura arte di quei fotogrammi trascende ogni confine, compreso quello fisico dello schermo.
Non si può infatti porre limite alla forza e alla poesia delle immagini di Garrel, così come non si può imbrigliare il film nella rappresentazione di un tempo simbolico e mitico come quello del 1968.
Perché il tempo di questa pellicola non è il tempo del racconto cinematografico né quello della storia; ma è un tempo assolutamente e puramente filmico, una dimensione creata dal regista-autore che, soffermandosi su un’inquadratura o un sorriso o uno sguardo non il tempo utile per la plausibilità o la durata reale dello stesso, bensì quello necessario per esprimere un discorso e il suo significato, crea l’opera. Questa è arte.
Senza ribadire la distanza cosmica che separa Les amantes dal Bertolucciano The Dreamers (francamente un film come tanti di una certa epoca, con il ’68 banalmente sullo sfondo), ci si rende conto davvero - anche dalla minima superficie di un ipod - della forza emanata da ogni inquadratura che non appare costretta e sacrificata da uno spazio così ridotto, ma anzi allude ancor più nettamente a ciò che resta fuori campo ma che al contempo è evocato e chiamato in causa in ogni istante... uno sguardo che allude a possibilità infinite, un gesto che richiama lo spazio e le sue possibili coordinate, una nuvola di fumo d’oppio che sottende la realtà di un sogno...
Provate a farlo con un altro film!

martedì 29 luglio 2008

[cinema] Il cavaliere oscuro. Ovvero le ali sulla città dopo l’11 settembre


L’ultimo atteso Batman firmato Nolan è un film assolutamente contemporaneo. Bella forza direte voi. Si ma lo è nel senso che si tratta palesemente di un’opera post 11 settembre, e questo è evidente da molti elementi.
Ma cerchiamo di andare con ordine. Sin dalla prima scena della rapina il motivo dello sdoppiamento si fa centrale: ci sono più rapinatori tutti mascherati (un po’ moduli un po’ cloni del Joker) che si eliminano uno con l’altro facendo il gioco della “matrice” Joker; la rapina avviene in una banca che però è una banca speciale in quanto proprietà della mafia; Batman (già doppio per natura, pipistrello di notte e miliardario di giorno) si moltiplica confondendo lo spettatore; la moneta che Harvey lancia - il doppio testa/croce - ha in realtà due teste; la faccia stessa di Harvey appena scampato all'incendio dell’ospedale diventa doppia, per metà la sua e per metà teschio.
E questo per quanto concerne sembianze e tratti distintivi.
Andando più avanti si comincia a delineare uno scenario al quale siamo abituati e assuefatti. Il bene non è sempre tale al 100%, anzi, in percentuale variabile si vela di male, a volte per necessità a volte per meschinità o egoismo. Ma il bene assoluto non c’è.
Già questo è segno dei tempi recentissimi, dove tutto e tutti paiono essere implicati nel male (anche noi con il nostro agire quotidiano abbiamo pesanti colpe).
Quindi non più bianco o nero ma un grigio (plumbeo) diffuso un po’ ovunque. Un humus dove il male - qui impersonato da Joker - attecchisce benissimo fino a sguazzarci.
Come accaduto nel 2001 per le torri gemelle di NY, gli attacchi arrivano inaspettati (perché senza apparente motivo) e colpiscono i punti nevralgici di Gotham.
Anche visivamente, i vetri rotti, le finestre che esplodono e i palazzi che si accasciano su se stessi ci riportano all’11 settembre.
La città (Gotham è rappresentazione della città contemporanea) - come NY e come ogni metropoli da allora - è vulnerabile e nuda, esposta ad attacchi prima impensabili. Le inquadrature mostrano uffici e case con immense vetrate che enfatizzano questa “nudità”.
Batman con i suoi strumenti sofisticati e i suoi poteri (dotazioni occidentali) pare impotente al cospetto della follia pura e fine a se stessa del male incarnato dal Joker.
Un Joker che non è più quello che conoscevamo, il fool di gomma con il sorriso beffardo stampato in bocca, fumetto quasi rassicurante nella sua riconoscibile ripetività, che faceva convergere l’azione e l’energia tutta su Batman.
Questo Joker è violento, ha una faccia poco rassicurante dove il trucco colorato e pop ha lasciato spazio a una maschera sbavata e consunta e dove il sorriso è un taglio profondo di una lama (ferita che ogni volta assume cause diverse nei suoi racconti ma che è sempre dovuta a violenze, dolori o soprusi).
Un male che non si può incasellare né arginare, come quello dei terroristi dell’11 settembre che - nonostante gli sforzi americani - ancora non hanno un volto preciso e soprattutto un male che non si può battere perché non ha nulla da perdere e colpisce indistintamente tutto e tutti (“Il bello del caos è che è equo”).
La scena in cui il Joker galleggia appeso nell’aria sta a dimostrarci che la paura è lì in agguato e può palesarsi in ogni momento, anche attraverso i gesti delle persone che non ci aspettiamo.
Perché - dice Joker - “La follia è come la gravità, basta solo una piccola spinta”.
BOOM!

mercoledì 23 luglio 2008

[cinema] Donne (vere) tra tragedie, fantasmi, malattie e piatti da lavare. Volver: questa è vita!



Uno dei miei sport estivi preferiti è il recupero-del-film-in-dvd-perso-al-cinema. Tra i (sempre troppi per me) film che mi ero ripromessa di recuperare al più presto c’era “Volver”, che non ricordo per quale motivo persi al cinema. In realtà avevo acquistato il dvd da un po’ di tempo ma non trovavo mai il momento adatto; finalmente è arrivato.
La cosa che più mi ha colpito nel film di Almodovar - sin dalla prima memorabile scena al cimitero - è l'affresco che Pedro fa della vita, del vivere quotidiano (la cosa più semplice e più complessa che ci sia). Le protagoniste (tutte bravissime e perfette con in testa l’icona Carmen Maura e un’ottima Cruz) sono l’incarnazione stessa della vita, quella vera.
La vita che è dominata dalla tragedia (in senso classico), che fa convivere vivi e morti, fantasmi (reali o presunti non importa) del passato con ombre del presente, che fa incontrare morte e malattia con la femminilità emozionante di una abito colorato o di una scarpa col tacco alto.
La vita che - ancora una volta - è dominata dalla donna che supera difficoltà e ostacoli, ama senza riserve, è solidale con altre donne e che vive sospesa tra una faccenda in cucina, un lontano ma vivido ricordo e lo spirito d’iniziativa necessario per affrontare il futuro.
Una donna forte e decisa che è orgogliosa anche quando è colpita dalla malattia (il rifiuto di Agustina alla tv spazzatura) e che ha il potere di dare la morte a un uomo che la merita (ma che con sensibilità femminile, dopo averlo lasciato in congelatore per giorni ha un moto di compassione e trova per lui una sepoltura il più degna possibile).
Trovo meravigliose queste donne (e nulla c’entra con certo femminsmo!) che tra una tintura ai capelli improvvisata in casa e un lavoro precario inventato dal nulla tirano avanti, forti fragili e sempre affascinanti.
Come la Magnani giustamente omaggiata con la citazione di “Bellissima” che mostra la donna più forte, orgogliosa e fiera del cinema di tutti i tempi.
W le donne! (e chi le sa raccontare).

lunedì 14 luglio 2008

[cinema] Per favore non chiedermi la trama


Non so se a qualcuno di voi accade lo stesso, ma una delle domande che mi vengono rivolte più spesso per sapere com’è un film che ho visto o che consiglio di vedere è: “di che parla?” o “mi racconti la trama?”, “che genere è?”.
Domande apparentemente banali e innocue che però mi mettono sempre in difficoltà (lo dichiaro così magari qualcuno me la risparmia la prossima volta!).
Dal momento che la domanda è legittima, il problema è sicuramente mio... cerco allora una spiegazione. La prima che mi viene in mente è che - magari inconsciamente - prediligo film dove la storia intesa come trama è secondaria, può esserci o meno, ma non è mai questo che fa a differenza...
Come si fa a riassumere a parole Mullholland Drive o Deserto Rosso? Come spiegare che Won kar-wai è uno dei più grandi innovatori del cinema provando a raccontare una storia che non sembra (e forse non lo è) scritta in un copione ma che nasce e si materializza attraverso la cinepresa?
Beh a me pare assai difficile. Ma difficoltà (o incapacità) personale a parte, mi chiedo il perché di queste domande ricorrenti... perché dopo oltre un secolo di arte cinematografica e dopo le sue trasformazioni escatologiche filosofiche tecnologiche e linguistiche abbiamo ancora bisogno di sapere “che genere è?” “di che parla?”. Mi sembrano quesiti impossibili anche per la pittura o la scultura, per quale motivo dovrebbero trovare risposta per la settima arte?
Forse la causa sta nel nostro bisogno di catalogare ed etichettare (ancora!?); forse nella poca disponibilità a lasciarsi andare davanti a qualcosa di ignoto che può rivelarsi un’emozione troppo forte; forse nella paura di non essere all’altezza degli stimoli e delle provocazioni che vengono da una pellicola; forse nella pigrizia che pone limiti alla voglia di riflettere, scoprire legami e riferimenti. Forse nell’abitudine alla televisione che tutto definisce e prepara, che ci conforta perché se anche ci stacchiamo dallo schermo per andare in bagno o per una settimana di vacanza, le storie e le trame sono lì, inamovibili, prevedibili e immutate, rassicuranti.
Personalmente preferisco faticare un po’ di più. A volte - credetemi - dà una grande soddisfazione e un inatteso piacere.

lunedì 7 luglio 2008

[fotografia] Il fascino (in)discreto del bianco&nero

L’altro giorno mi sono imbattuta in un sito di fotografie in bianco e nero, una mia grande passione. C’erano parecchie foto, alcune delle quali davvero degne di nota; ognuna comunque aveva qualcosa di interessante... Roland Barthes - se non ricordo male - credo lo chiamasse il punctum; un centro attrattivo, una forza fuori campo che l’immagine suggerisce e proietta. Guardiamo un’immagine e quello che ci colpisce è un dettaglio per la sua capacità di chiamare in causa qualcosa che non è lì, non è stato impressionato sulla pellicola, ma che dalla stessa è evocato.
Ho riflettuto su questa cosa da quando lessi (secoli fa!) “La camera chiara”, perché spiega bene l’effetto che hanno su di me le fotografie. Solo quelle in bianco e nero però.
Quelle a colori, per quanto belle, suggestive e artistiche non esercitano su di me lo stesso fascino.
Questa cosa è curiosa credo... non so se qualcuno di voi provi lo stesso.
La spiegazione che mi sono data riflettendoci un po’ è questa: le foto a colori mi danno l’idea della realtà mentre quelle in b/n mi danno... l’idea dell’idea!
Mi spiego meglio. Mentre il colore si riferisce sempre all'oggetto che rappresenta (ad esempio un tavolo verde è quel tavolo, quello e non altri), il b/n - rinunciando alla riproduzione fedele del dato reale - opera un’astrazione e suggerisce un’idea meno contestualizzata (il tavolo che vedo può essere di qualunque colore e quindi anche di qualsiasi epoca e ubicato in qualsiasi luogo).
In sintesi: il colore probabilmente toglie molte possibilità di immaginazione e di interazione a chi guarda.
Oltretutto, essendo la foto per definizione un’icona della morte (visto che cattura un momento che mai più tornerà, congelandolo per sempre) il colore, per la sua fedeltà, appare un po’ inquietante (ma forse solo a me!), mentre il b/n sembra regalare al soggetto fotografato una sorta di eternità, un valore che va oltre il soggetto-oggetto.
In fondo è lo stesso effetto che suscitano spesso i film in bianco e nero.

lunedì 30 giugno 2008

[cinema] E venne il giorno. O poco ci manca


Per me è arrivato. Finalmente sono riuscita a vedere il nuovo di Shyamalan, “The happening” (“E venne il giorno” è la solita odiosa traduzione italiana). 
Avendone sentito parlare (da molti) piuttosto male, come sempre mi accade ero ancora più incuriosita. La prima impressione è stata che questo film fosse il compimento naturale di “The village” e di “Lady in the water”.
Il cineasta indiano - soprattutto in queste tre pellicole - ha ampiamente dimostrato il suo interesse per la comunità, per le masse di persone accomunate da qualcosa
che si trovano a dover affrontare, combattere e interpretare l’intrusione di un elemento esterno.
In “The happening” la comunità è costituita dall’intera popolazione umana e ciò che deve fronteggiare è una natura che, stanca dell’aggressione dell’uomo, si ribella portando lo sterminio.
Shyamalan descrive con grande ironia la ribellione di madre natura che in modo bizzarro e apparentemente metodico quanto non decodificabile da scienza, politica o sociologia, sembra aver deciso di distruggere il genere umano, partendo (e via a possibili spiegazioni da talk show) dal nord est degli States.
La cifra grottesca del film si incarna nel protagonista Elliot, docente di scienze che cerca in ogni modo una spiegazione e poi la salvezza per la sua famiglia, mentre il cardine dell’intero costrutto narrativo è senz’altro l’idea di falso. 
Dunque Natura (naturale) versus Falso (manipolato oltre ogni limite dall’uomo).
Il Falso è presente in tutti i momenti di questa opera ecologista ed eco-logica. Il vento mortale parte sempre da un parco (Il parco per eccellenza Central Park all’inizio ma anche un parco di Parigi alla fine) che altro non è che il tentativo di impiantare un po’ di natura dentro una città che di naturale non ha nulla (quindi doppio falso); gli uomini quando vengono colpiti dal vento immobilizzatore restano pietrificati come statue (quindi finti uomini); la famiglia protagonista è in realtà una finta famiglia (la bambina non è loro figlia ma il surrogato di quella che non si decidono ad avere); per non parlare della scelta degli attori e dei personaggi (falsi) che paiono usciti da una fiction.
Tutto ciò - e molto altro - fa pensare però che la fine non sia poi così tragica, che forse una brezza mortale e distruttiva possa porre fine a un pianeta ormai insopportabilmente finto e consunto a favore della nascita di una nuova umanità (insomma, forse siamo proprio alla frutta). 
C’è da pensarci. Prima che arrivi il giorno, possibilmente.

martedì 24 giugno 2008

[cinema] Ozu, Tokyo e Wenders. Il gesto cristallizzato del/nel cinema


Non sono ancora riuscita a vedere “E venne il giorno”, ma ce la farò! Nel frattempo oggi mi è capitato di rivedere in dvd “Tokyo-ga” di Wenders, un film-documentario che è un omaggio al grande regista Ozu ma allo stesso tempo è anche una sorta di caccia: all’immagine e all’essenza di una cultura.
Premesso che a mio parere Wenders è un buon regista di documentari, non altrettanto di altri generi, Tokyo-ga mi ha colpito per un motivo soprattutto.
Wenders, alla ricerca di quel Giappone filmato nel corso della sua carriera da Ozu e che pare non esserci più, ci mostra quanto il nostro sguardo - inteso come di noi contemporanei, soprattutto occidentali - sia incapace di vedere in modo “puro”, non mediato cioè dalle miriadi di immagini nelle quali siamo immersi.
Il documentario verte interamente su questa idea del vedere in modo mediato (mediatico?) e, potremmo dire in un certo modo, trasposto. Il regista parla di una altro regista e lo fa mostrando (in apertura e chiusura) le immagini di un suo film che guarda caso si intitola “Viaggio a Tokyo”.
Ozu viene narrato attraverso le parole del suo attore preferito e del suo direttore della fotografia, i treni presenti in ogni suo film sono rievocati dalle moderne metro che ne sono un’immagine futurista, mentre l’America arriva in Giappone attraverso la musica e le mode (i ragazzi che ballano vestiti da teddy boys riproducendo pedissequamente i movimenti visti al cinema e in tv) e dalla televisione, ormai ombelico del mondo per tutti a tutte le latitudini, come dichiara esplicitamente lo stesso regista.
Per tutto il film egli si (e ci) chiede se sia possibile ritrovare quel mondo descritto da Ozu, se si possano avere immagini trasparenti e pure come quelle che Herzog (che compare nel documentario) dichiara di cercare in tutti i modi e a tutti i costi in ogni film, anche salendo a 8000 metri di quota con la cinepresa se necessario.
L'impresa pare impossibile ma in realtà l’identità di una cultura - che per i giapponesi è forse espressa nell’arte della forma e della composizione - riesce ad emergere in qualche modo.
Nonostante l’invasione dell’America e del moderno, ciò che resiste è il gesto come simbolo di una identità che sopravvive; se è vero che si vedono gli abitanti di Tokyo frastornati da Disneyland e bersagliati dai talk show, si salva però qualcosa che va letto come una sorta di “resistenza”. Mentre giocano un assurdo golf sui tetti dei grattacieli non badano che la pallina vada in buca ma si concentrano sul movimento per colpirla, così come alla faccia del fast food, perdono ore a creare copie esatte in cera (da esporre in vetrina) dei piatti che i ristoranti cucinano. 
E in questo contesto, il gesto ostinato di un bambino che non vuole camminare e si ribella alla madre risulta vitale e liberatorio.

mercoledì 18 giugno 2008

[cinema/suono] Acusmatiche immersioni. Ascoltare il cinema


Ancora non sono riuscita a vedere il nuovo Shyamalan, ma ho deciso che lo farò lunedì, caschi il mondo... Nel frattempo però mi è capitato di vedere in dvd “Domino”, pellicola del 2005 firmata da Tony Scott. 
A parte il fatto che non mi è dispiaciuto - anzi l’ho trovato niente male, forse perché mi aspettavo una videoclippata e basta - la colonna sonora davvero tosta mi ha colpita e fatto riflettere su una cosa che in realtà mi gira in testa da tempo; credo che la svolta più importante degli ultimi tempi (anni) per il cinema non riguardi l’immagine ma piuttosto il suono. Dopo il passaggio al digitale, nella visione del film non è accaduto nulla di epocale; il prossimo passo sarà probabilmente l’ologramma.
Per quanto concerne il suono invece, l’arrivo del dolby (e quindi il dts, le 5 poi le 6 casse, etc) ha cambiato la fruizione del film stesso.
Il suono (diegetico, extradiegetico, on, off) è stato sempre fondamentale nella creazione di un’opera cinematografica: da una qualsiasi pellicola dell’insuperato Kubrick le cui musiche restano indimenticabili a Sergio Leone che girava sulle partiture di Morricone a Peckinpah che ha inventato ex novo suoni inesistenti nella realtà, a film più recenti come “Traffic” dove i suoni ovattati e rarefatti contribuiscono non poco all’atmosfera della storia o “Non è un paese per vecchi” che esclude la musica dalla colonna sonora creando così un impatto forte e preciso.
Ma l’ascolto in dolby, l’essere immersi nel suono che proviene da fonti e punti diversi, ci ha posto in una nuova condizione, regalandoci secondo me la vera tridimensionalità. 
Nel suono noi siamo immersi, non possiamo scegliere di non sentire (a meno di non tapparci le orecchie), mentre per vedere dobbiamo guardare, per toccare dobbiamo avvicinarci all’oggetto etc. 
Se è vero che il senso elettivo del cinema è la vista (la classica dicotomia sguardo/visione), il suono è assolutamente rilevante. Fate una prova ascoltando qualche minuto di un film (possibilmente in lingua originale!) senza guardarlo; si capiscono un sacco di cose: che tipo è chi parla, la sua età, la condizione sociale, che rapporto ha con il suo interlocutore, in che epoca e in quale luogo si trova, che genere di film è, il livello di tensione della scena e il suo ritmo.
Adesso basta però che vado a fare le ciambelle all’anice... immersa nella musica dei Portishead.

lunedì 16 giugno 2008

[cinema] Il moderno che avanza e la sua immagine. Lontano dal paradiso


Nel panorama piuttosto triste della controprogrammazione agli europei di calcio, che ogni sera propina Via col vento e Pane amore e fantasia, ritenuti evidentemente adatti al pubblico che non segue la partita (non chiedete perché), stasera Rai3 ha trasmesso un film interessante.
“Far from heaven” di Todd Haynes è un film metacinematografico (scusate il termine), stilisticamente ma anche nel modo di narrare. Il suo primo referente è senz’altro Douglas Sirk e il cinema americano degli anni ’50, anche se a me sono venute subito in mente l’inquadratura con cui apre Blu Velvet e l’ambientazione di American Beauty: villetta perfetta borghese con giardino curato sulla quale veglia una padrona di casa inappuntabile.
Le gonne a ruota e i completini bon ton della signora Withaker sono l’immagine di un mondo e di uno status che pare perfetto e incorruttibile, ma che si rivela ben presto assai diverso, tutto fatto di razzismi e intolleranza.
Scenografia, costumi e modo di raccontare anni ’50 (l’omosessualità è rivelata da un bacio, oggi ci sarebbe la scena di sesso) contribuiscono a dimostrare però che - nonostante tutto - il moderno avanza inarrestabile.
La protagonista ne è la prova vivente, anche se resta l’unica a perdere il treno della modernità, schiacciata tra gli stereotipi della società in cui vive e la proprie idee molto liberali per l’epoca. Un conflitto che resta irrisolto perché mentre gli altri trovano le loro strada (il marito divorzia e asseconda le proprie pulsioni mentre il giardiniere nero di cui si è innamorata lascia tutto e va a New York con la figlia, dove troverà una mentalità meno ostile al colore di pelle diverso), lei resta vittima dei limiti della società, che ha cercato di scardinare in prima persona.
L’immagine di buona borghese senza macchia le resta appiccicata come il servizio che una rivista realizza su di lei. E’ il primato della forma sulla vita.
Quell’immagine che in quest’opera torna di continuo - le foto per il giornale, le TV dell’azienda Magnatech, lo specchio nella camera d’albergo, i quadri alla mostra - sovrasta volontà e possibilità di agire liberamente.
Oddio... non è che (visto il primato indiscusso dell’immagine ai giorni nostri) è ancora così 50 anni dopo? O magari peggio?! 
Vabbé... ci dormo sopra direi... notte

venerdì 13 giugno 2008

[radio] La Tv italiana e la paura di sperimentare. Ma la radio no...

Con l’arrivo dell’estate (anche se dal meteo non sembra ci siamo già), la televisione si prepara come ogni anno al suo nulla estivo, fatto di repliche, fondi di magazzino e vecchissimi telefilm. Anche quest’anno stiamone certi ci propinerà duecento puntate della Signora in giallo, le ultime due serie del Commissario Rex, qualche replica di Carabinieri, Poliziotti e RIS, improbabili festival canori da sperduti e ameni luoghi e - ma solo se saremo fortunati - qualche film minimalista italiano anni ’60 - ’70.
Ormai la TV italiana è talmente autoreferenziale e incapace di azzardare anche a notte fonda che la sola parola “sperimentare” la fa impallidire.
Per fortuna la radio si sottrae a questo meccanismo sterile e in alcuni (abbastanza) casi, nel corso dei mesi estivi mette in onda programmi nuovi, testando nuovi conduttori o combinazioni diverse degli stessi.
E’ il caso di Radio2 (la radio che ascolto di più, in modo quasi esclusivo) che dopo una stagione di programmi seguiti e di successo prova anche a produrne di nuovi.
Sulla scia del successo di Fiorello e Baldini che negli ultimi anni con “W Radio2” hanno avuto un vero e proprio effetto trascinamento (sull’emittente ma anche sulla radio come mezzo), si iniziano a vedere i primi programmi nuovi.
Ed è anche il caso di .... condotto dalla coppia Asia Argento e Gianfranco Monti (che quando conduce da solo secondo me non funziona molto bene), un programma semplice ma che di sicuro funziona e “arriva”; così come era accaduto per Giorgia che lo scorso anno ha condotto un programma di successo risultando molto gradevole anche come conduttrice...
Si tratta solo di due esempi che però dimostrano la superiorità e la vivacità della radio sulla sorella (ora lei minore) TV... 
Quindi antenne pronte: potrebbe esserci qualche gradevole sorpresa tutta da ascoltare.

mercoledì 11 giugno 2008

[cinema] Ground zero e la 25a ora dell’America

Drcasado (che saluto e ringrazio) citando la scena di “Shortbus” mi ha fatto tornare in mente quello che secondo me è il più grande film sull’America post 11 settembre.
Sto parlando de “La 25a ora” di Spike Lee, uno Spike Lee maturo, profondo che sa dove affondare il coltello e lo sguardo e che dopo un’altra grande pellicola come “Summer of Sam” (SOS) ha dato prova delle sue qualità e dell’originalità del suo punto di vista.
Uno sguardo veramente americano se l’America è - come è - un incrocio di razze, un incontro di culture e identità diverse che spesso si scontrano per la conquista di quello sterminato continente che per la sua giovane età e la sua sconfinata grandezza resta ancora quello del mito dell’orizzonte da superare, da conquistare (come nei western).
Nella scena che credo la più forte e perfetta della 25a ora, quella cioè dove da un palazzo adiacente si vede dall’alto Ground zero il luogo che ospitava le torri gemelle, c’è al contempo il sogno americano e la sua distruzione.
Un sogno che aveva raggiunto vette inusitate e che ora ha lasciato un buco nero, una voragine primordiale che ha ingoiato tutte le certezze e le speranze di quel sogno (il sogno per eccellenza) e che forse sarà l’origine di una nuova era, diversa assolutamente dalla prima.
Un percorso e un destino speculare a quello del protagonista che nel suo ultimo giorno da uomo libero va verso una vita diversa alla quale non è pronto ma che è inevitabile. Come il destino.
(Una di queste sere devo assolutamente rivedere il film...)

martedì 10 giugno 2008

[sdvq*] w il calcio w gli europei (così la strada è più libera per me e la mia bici)

Una delle cose che mi fanno sentire meglio e che aspetto sul finire della giornata è il mio quasi quotidiano giro in bici, o forse dovrei dire corsa, visto che vado abbastanza veloce e in un’oretta mi faccio diversi chilometri.
Metto il mio ipod alle orecchie, seleziono una delle playlist che banalmente ho chiamato “bici1” “bici2” etc e che ho creato alternando i miei brani preferiti, facendo attenzione a salire e scendere di ritmo con i tempi giusti, e fuggo rapidamente dal centro città dove abito per arrivare nelle zone più verdi (zone che fortunatamente si raggiungono in un attimo essendo la città piccola). 
E pedalo pedalo riuscendo pian piano a far lavorare sempre meno il cervello e sempre più i muscoli, cosa che ritengo terapeutica e rilassante come poche altre.
Con mio gran sollievo da lunedì scorso, con l’inizio degli europei, all’ora di cena le strade anche se non proprio deserte sono molto più libere, il che significa meno puzza, meno rumore e meno pericolo, vista la quantità di idioti che circolano senza guardare dove vanno, attraversando a tutta velocità piste ciclabili, parcheggiando su discese per disabili (molto spesso guidano un ingombrante suv e parlano al cellulare con espressione inebetita).
Le poche macchine che girano - è vero - sono una minaccia, dal momento che corrono come forsennati per arrivare in tempo davanti alla tv; però sento la strada più amica e vedo anche cose normalmente invisibili e soffocate... insomma la città è più vivibile (definizione abusata che in questi casi assume davvero significato).
Quindi.. ben vengano mondiali europei e roba simile: voi state davanti allo schermo che per strada (stavolta) ci andiamo noi!


*sdvq significa “scene di vita quotidiana” e indica quei post che non rientrano negli altri ambiti (cinema, arte, libri, etc) che uso nei titoli per far capire di che parlo (beh magari il titolo a volte è più o meno intenzionalmente criptico o solo allusivo).

lunedì 9 giugno 2008

[arte] il cinema, il doppio e la domanda fatidica: cosa (non) è l’arte?

Oggi pomeriggio ho trascorso un’oretta con il mio prof di cinema (docente di un corso biennale che ho seguito dopo la laurea proprio perché c’era lui tra i docenti, ma credo di non averglielo mai detto) che ha presentato un cineforum sul tema del doppio che si terrà nei prossimi giorni.
Sempre in modo arguto ma diretto e chiaro è partito dal tema in questione per arrivare a parlare di arte oggi e ieri. 
Il doppio è un concetto intrinseco al cinema; il regista guarda e vede e noi vediamo coi suoi occhi ma anche con i nostri, sullo schermo c’è sempre il dato reale (cioè il profilmico, ciò che si vede realmente, quello che è stato ripreso) ma filtrato dall’autore che ha deciso di farci vedere una scena in un certo modo e di riprendere o meno un attore da un determinato punto di vista.
Ma il doppio pervade tutta l’arte, dove all’apparenza delle cose (e delle opere, ove ci sono) si contrappone il suo significato, o meglio quello che l’artista vuole dargli. E partendo dall’esempio della mummia - che oggi è un’immagine dell’orrore mentre nell’antico Egitto era l’immagine della vittoria della vita sulla morte, la capacità dell’uomo di bloccare, congelare la morte e consentire alla vita di attraversare intatta il tempo - si è dibattuto un po’ sull’arte, sull’interpretazione e sulla nostra società che si basa sull’evidenza dei fatti, rimuovendo freudianamente tutto il resto (l’interpretazione, il punto di vista, la ricerca d un significato oltre l’apparenza).
E questo ha stimolato come sempre in me la fatidica domanda che mi faccio (ma credo di condividerla con molti): cosa possiamo dire che sia arte?
Ma non oggi e adesso, in questo contesto. Mi riferisco a una definizione buona in modo assoluto... bella pretesa direte voi, dal momento che sono secoli che ci provano filosofi e teorici senza giungere a una risposta univoca.
Effettivamente pur appellandosi a Kant e alla critica del giudizio o alle migliaia di opere e parole che si sono spese sull’argomento la soluzione mi pare molto lontana.
L’arte è qualcosa riconoscibile da tutti? Beh allora esisterebbero dei canoni da seguire. Kant diceva se non ricordo male che l’arte è qualcosa che non ha un fine, non è “utile”... Ma allora è più facile dire cosa non è che cercare di capire di cosa si tratta? 
Beh io penso che non sia qualcosa che ha tempo, altrimenti nel XXI secolo non apprezzeremmo un dipinto del ‘500 o una chiesa romanica; ma non ha nemmeno spazio perché se per esistere dovesse occupare un luogo, le produzioni contemporanee che non sono più opere ma performance non sarebbero arte...
Vabbè, vado a farmi un gelato, non sono domande da porsi a quest’ora mentre tutti stanno incollati a vedere la partita degli europei! (per la cronaca mentre scrivo l’Italia perde 2 a 0 con l’Olanda... lo hanno appena detto alla radio)

[cinema] Sorrentino, Gomorra e co. Il cinema che viene dal sud


Il cinema italiano - a detta dei critici e dei giornalisti - è sempre sull’orlo del precipizio. Salvo poi smentire questa affermazione ogni volta che nelle sale esce un film italiano che ha successo al botteghino oppure quando un film di casa nostra riceve un riconoscimento in qualche festival.
Stavolta è accaduto con Gomorra e Il Divo, due film nelle sale in questi giorni il cui valore è stato ampiamente riconosciuto a Cannes.
Meno male, così parlando del sud non si tira in ballo solo ‘a monnezza...
Un’ottima cosa anche perché ci fornisce l’occasione di ricordare la vivacità - cinematograficamente parlando - dell’Italia del sud negli ultimi anni.
Penso sicuramente alle pellicole di Sorrentino, interessanti e di successo, a Mario Martone che è riuscito a raccontare sentimenti paure e sensazioni che hanno un respiro davvero transnazionale (due titoli su tutti L’amore molesto e il bellissimo Teatro di guerra, sulla guerra vera, la guerra mancata e la guerra interiore), ma anche ad Antonio Capuano che pochi anni fa (3 se non ricordo male, ma le date non sono il mio forte) ha realizzato uno splendido lavoro dal titolo La guerra di Mario.
Se non lo avete fatto vi consiglio più che caldamente di vederlo. E’ un’opera intelligente e mai scontata che racconta di un bambino che vive una vita davvero difficile e che viene affidato a una famiglia borghese, portando crisi e scompiglio senza riuscire ad allontanare nemmeno per un attimo i propri problemi e fantasmi.
La purezza e la realtà (diciamo pure crudezza) delle immagini si sposano alla purezza del linguaggio, anzi dei molteplici linguaggi, che si incontrano e scontrano senza mai riuscire a comunicare davvero.
Nel film ha una colonna sonora che da sola è in grado di narrare un mondo: suoni musica parole e lingue diverse si rincorrono e sovrappongono a raccontare un mondo (quello di Napoli e del sud) che mi ha sempre affascinato (da centro italica che sono).
La guerra di Mario è anche un film sul destino di un bambino, un destino che non può mutare e che investe le sue origini, la sua lingua e il suo territorio; una storia che commuove, fa pensare e colpisce dritto allo stomaco... un bel pugno che raramente i film ci regalano e che fa sempre bene, non credete?

domenica 8 giugno 2008

ciaooooooo

sto costruendo questo blog, che ho deciso di fare così per caso e adesso ho deciso di finire... quindi non appena completato ci vediamo qui... a prestissimo!