il cinema secondo crisss

Un blog sul cinema. E tutto il resto

mercoledì 23 novembre 2016

[cinema] L’estetica e la creatività: Animali Notturni di Tom Ford


 

Corpi in disfacimento e obesi come oggetto d’arte e performance artistica. È con queste immagini che si apre Animali Notturni, l’opera seconda dello stilista regista Tom Ford.

E sarà proprio l’incombere del brutto nel bello, dell’orrore nella perfezione, a rappresentare il centro dell’intero film.

Animali Notturni di Tom Ford è assai interessante per l’estetica: l’intera pellicola è uno stagliarsi di forme (le linee dritte e gli angoli della casa di Susan, la protagonista, e della sua galleria d’arte, luoghi freddi e contenitori perfetti per l’arte e le opere che accolgono) e colori (il rosso dei capelli, suoi e delle protagoniste del romanzo che l’ex marito Edward le recapita, il bianco accecante di molti interni).

In queste forme perfette e patinate però, così come nella narrazione, a un certo punto incombe l’orrore, ovvero la violenza, che esteticamente è rappresentata dal brutto.

Susan, indossando un paio di occhiali che la trasformano idealmente e visivamente in autore/regista, inizia a leggere il manoscritto inviatole dal suo ex marito e a lei dedicato; il racconto di una storia di violenza perpetrata da un gruppo di “sporchi e cattivi” su un’innocua famiglia che viaggia in auto, comincia a prendere le sembianze della realtà, o meglio a incombere nella realtà di Susan.

I continui flashback e il fatto che la vicenda romanzesca sia impersonata dagli stessi attori/personaggi della vita della protagonista (l’uomo è il suo stesso ex ovvero l’autore del romanzo, la moglie delle pagine di carta avrebbe potuto essere lei e la figlia – rossa di capelli come lei – avrebbe potuto essere la loro bambina) mettono Susan al centro di una cesura, in una faglia spazio temporale che la destabilizza, le fa paura e mina il suo mondo dorato e perfetto (nel quale però non è affatto felice).

E con l’arrivo della violenza e del brutto la donna comincia a rileggere sé stessa, il proprio passato e le proprie scelte, vivendo sulla pelle e attraverso il disagio (non dorme praticamente mai) errori, mancanze, scelte.


Susan – con l’avanzare delle pagine del manoscritto – rivive i momenti salienti del suo matrimonio, del rapporto con la madre (alla quale decisamente ha iniziato a somigliare molto, nonostante avesse lottato fortemente contro questa idea) e della sua vita.
Il ritratto che ne esce è quello di una collezionista d’arte mai riuscita a diventare artista, di una “capitalista” della creatività che non riesce a essere lei stessa creativa (vedi l’aborto), cosa che invece è Edward.
Lei, protagonista del film e del libro, sembra non essere più protagonista della sua vita e di quella degli altri (marito ed ex in primis) e il suo personaggio da primario diventa non più necessario.



giovedì 4 agosto 2016

[cinema] Ritorno al cinema con paura. 10 Cloverfield Lane

Tempi brutti, di paure vere e diffuse.Paura catartica invece quella che ci fa provare il cinema, da sempre. Anzi, sono i thriller e gli horror le pellicole che più ci fanno sentire “dentro” al cinema, che all'esperienza estetica/visiva aggiungono quella più fisica ed emozionale. Vista la stagione pienamente estiva, vorrei segnalare uno dei film dell’ultima stagione cinematografica da recuperare nelle arene sotto le stelle, 10 Cloverfield Lane.

I fondamentali del genere ci sono tutti: un incidente che conduce da uno stato di quotidiana normalità a un ambiente altro e sconosciuto, un bunker dal quale sembra impossibile uscire, degli sconosciuti, un luogo ostile. Che qui sono perfettamente mescolati e manipolati.

Sin dai primi minuti, il film instaura uno scambio perfetto con lo spettatore con il quale riesce (nella realizzazione di una delle maggiori ambizioni cinematografiche) a mettere in campo una partecipazione continua che sarà alimentata per tutto il film dalle domande di chi guarda: è vero? È falso? Quale è e come distinguere la realtà?
Domande che lo spettatore si pone anche nella (e fino alla) ultima scena, in una continua tensione che si fa carburante per la scrittura dell’opera prima di Dan Trachtenberg.


In questa pellicola c’è il cinema basico, fatto di espedienti estetici, visivi e sonori che tirano fuori la reazione dello spettatore e che ben sveglio sulla poltrona vive empaticamente le sorti della protagonista. 
Gli elementi base, le spiegazioni ogni volta sconfessate e le derive citazioniste, accompagnano il pubblico fino all'uscita dalla sala, quando tutti inevitabilmente si chiedono “e quindi?”. Effetto cinema.








lunedì 30 maggio 2016

[cinema] I am Mr Nobody, the man who doesn't exist. Il cinema “esistenziale” di Jaco Van Dormael


Mr Nobody è un film del 2009, mai distribuito in Italia (e che ha vissuto alterne vicende in giro per i Festival d’Europa).Una pellicola del poco prolifico regista Jaco Van Dormael – che di recente ci ha regalato Dio Esiste e Vive a Bruxelles e che è l’autore di un film meraviglia come Toto le Héros – che tratta di grandi temi come suo consueto; stavolta un discorso davvero ambizioso sulla vita, sulle tante anzi infinite scelte che questa ci offre e su come queste possano, ovviamente, profondamente cambiarla. Rispetto allo Sliding Doors che a tutti viene in mente, qui però non siamo di fronte a una scelta, a un bivio. Qui siamo di fronte a una serie infinita di scelte, dinanzi alla vastità di opzioni occasioni e situazioni che la vita ci offre e che alla fine, sommate e stratificate o anche alternate, rappresentano la vita di ognuno di noi. 

Il protagonista ultracentenario, ultimo dei mortali, sembra raccontare la sua vita; ma la sua storia non ha nulla di lineare. Si sovrappongono persone situazioni momenti che avrebbero potuto essere (?) oppure no, fare di lui un uomo innamorato oppure no, un uomo che vive con una donna depressa e malata o con il suo grande amore. Oppure no.
Difficile se non impossibile rendere a parole un’esplosione narrativa che attraversa piani, dimensioni temporali, prende derive, andando avanti e tornando indietro come se tutto fosse possibile (“la vita o è un parco giochi o è nulla”).


L’espediente che il regista usa, partendo dalla scelta impossibile di un bambino di nove anni che deve decidere se restare con l’uno o l’altro genitore quando questi si separano, è quello di proporre tre possibili storie/vite, ciascuna identificata da una delle donne che il protagonista (uno stralunato e “astratto” nei suoi tratti somatici unici Jared Leto) avrebbe potuto sposare. Non due, ma tre. A indicare, appunto, non un bivio e due opzioni ma tre tra le possibili infinite vite che avrebbe potuto vivere.
Ciascuna di queste – identificata in una donna che avrebbe potuto sposare - rappresenta poi una vita delle tante che ognuno di noi si trova (può trovarsi) a vivere: l’amore-malato per una donna depressa dalla quale non è ricambiato, l’amore-abitudine e senza passione per una donna che non trova in lui conferma del suo sentimento e l’Amore-vero, quello che capita (forse) una volta, quello Ideale e (forse solo) letterario.

In un corto circuito temporale, i tre possibili matrimoni (e quindi le tre possibili vite) sono mostrati con un espediente cinematografico molto efficace: in una chiesta a tre navate, Nemo (“mr nobody”) esce in veste di sposo da ciascun portale, ogni volta con una delle tre spose. E dopo ciascuno di quei matrimoni, verrebbe da dire, Dio solo sa che accade.

Il tutto è reso visivamente con una formula che mescola e cita generi e autori, le cui soluzioni visive ricordano spesso il cinema di Gondry.


Un film ambizioso dicevamo, che tocca i grandi temi della vita fino al più grande, quello dell’esistenza stessa, della quale nessuno di noi può avere prova certa, figuriamoci conoscere la scelta giusta: “Come puoi essere così sicuro che anche tu esisti? Tu non esisti, e neppure io. Viviamo tutti solo nell'immaginazione di un bambino di nove anni. Siamo il frutto dell'immaginazione di un bambino di nove anni messo di fronte ad una scelta impossibile. Negli scacchi si chiama Zugswang. Quando l'unica mossa possibile è quella di non muovere. Vieni a vedere."

Noi forse non esistiamo, ma il cinema dalle grandi ambizioni per fortuna sì.

 

Grazie ad Andrea Siragusa, per il film e la successiva chiacchierata, amico da sempre, compagno di anni di discussioni e elucubrazioni cinematografiche, quasi sempre consumate davanti a una birra.



 

mercoledì 4 maggio 2016

[cinema] Ho visto Stefano Accorsi recitare. Cosa aspettarsi dal cinema italiano dopo Lo Chiamavano Jeeg Robot e Veloce Come il Vento

Forse – e ribadisco forse – si sta avvicinando un momento di trasformazione per il cinema italiano. Non parliamo di svolta epocale o miracolo, ma cambiamento sì. Forse anche chi fa il cinema in Italia è stanco di produrre film alla stregua di fiction per la TV e che da questa si distinguono solo per l’assenza di interruzioni pubblicitarie (ma poi quando passano in tv diventano perfettamente interscambiabili con qualsiasi produzione televisiva su preti, poliziotti o medici).

Forse si sono accorti che in Italia oggi non esiste il cinema della contemporaneità, cioè quello che parla di noi, della nostra vita adesso (e non sarà un caso se da decenni i premi internazionali ci vengono assegnati solo per film che parlano di altre epoche, da Nuovo Cinema Paradiso di Tornatore a Mediterraneo di Salvatores a La Vita è Bella di Benigni). Fatto sta che in queste settimane abbiamo visto due film che (forse) cominciano ad aprire la strada nella direzione del benedetto contemporaneo: Lo Chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti e Veloce Come il Vento di Matteo Rovere.

Il primo è un film di cui si è parlato molto perché è senz’altro una sorpresa, un film con delle idee, fortissimamente legato a Roma e alla romanità (in una mappa ben delineata) e al contempo universale (risultato apprezzabilissimo questo), che percorre una propria strada che solca – coraggiosamente, se confrontato ai film medi italiani – il cammino della fantasia e tenta la via della originalità.
Da par suo, Veloce Come il Vento è un film anch'esso contemporaneo, legato in questo caso alla Romagna e alla sua tradizione di macchine e motori, ma allo stesso tempo un film di genere se vogliamo (non è un difetto, una volta per tutte chiariamo… di genere sono anche Apocalypse Now e The Shining!), un action movie con buona dose di adrenalina; una pellicola dove il regista prova a dirigere gli attori mettendo finalmente a servizio del film anche il loro corpo inteso come materia plastico espressiva. Che ha il merito di farci vedere un nuovo Stefano Accorsi, fuori dalle pubblicità del gelato, dai film con le solite Giovanne Mezzogiorno, un attore trasformato, scarnito, segnato, che partecipa alla scrittura della storia con l’intera persona e che vediamo finalmente recitare; accanto a lui l’ottima Matilda De Angelis che sappiamo essere già in forza alla fiction TV, ma che ci auguriamo di vedere ancora al Cinema (quello italiano del nuovo corso che – vogliamo scommetterci? – è già iniziato).

 
         

mercoledì 2 marzo 2016

[cinema] Amore e vita in stop-motion. Anomalisa

Dalla mente di Charlie Kaufman, sceneggiatore di film come Essere John Malkovich e Eternal Sunshine of Spotless Mind, stavolta è uscito un film d’animazione. Anomalisa, film diretto da Duke Johnson e Charlie Kaufman e realizzato in stop-motion, ovvero con la tecnica che utilizza l’animazione di oggetti reali attraverso una serie di scatti fotografici in sequenza, è la storia di come possa essere banale la vita quotidiana e come a volte possa essere perverso il meccanismo che fa muovere la nostra mente.

I personaggi in stop-motion risultano in questo film più reali degli attori in carne e ossa; ogni loro movimento viene sviscerato fotogramma per fotogramma come fosse un’analisi ultima dei suoi atomi. All’hotel Fregoli – riferimento alla “rara malattia psichiatrica con presenza di delirio di trasformazione somatica, in cui avviene da parte del paziente il riconoscimento di persone non conosciute oppure sovviene allo stesso l'idea che le persone conosciute modifichino il proprio aspetto per non essere riconosciute”1 – si muove il protagonista Michael (in viaggio di lavoro) assieme a personaggi che dopo pochi minuti dall'inizio del film consideriamo senza fatica attori veri, coi loro gesti e le loro espressioni, e che allo stesso tempo ostentano cuciture a vista, che svelano palesemente la loro condizione di pupazzo. Tra questi Michael nota Lisa, ragazza maldestra e svampita della quale però – attratto inizialmente dalla voce – si innamora ben presto. Lontano dalla famiglia per lavoro, quello che gli accade al Fregoli è un incontro speciale con una ragazza anomala (da qui il nome Anomalisa, come lui stesso la “battezza”, dandole dignità di persona e facendo del suo difetto – non solo quello della vistosa cicatrice – qualcosa di speciale. 

Dunque un film, Anomalisa, dove reale, immaginato e immaginario si fondono e si stratificano su più livelli. La qual cosa ci rende spettatori di momenti vari e, per noi che guardiamo, reali(stici) e destabilizzanti al contempo. L’atto d’amore che si consuma tra i due è vero come in pochissimi altri film interpretati da attori umani; ma scendendo al seminterrato, nella stanza del vicedirettore dove questi dichiara in una situazione assurda il suo amore al protagonista, si consuma invece una scena surreale che si rivelerà poi sogno. Reale/immaginario si alternano e si sovrappongono quasi come si succedono i piani (in verticale) e le stanze (in orizzontale) dell’hotel, location significante del film. Come nella realtà più reale, quando negli occhi di chi guarda finisce l’amore, finisce anche l’incantesimo della voce dell’amata e le sue parole da poesia diventano fastidio, da dolci a sgradevoli da udire.E allora il dolore irrompe nella vita di Michael così come i turbamenti si insinuano nel suo discorso preparato sul marketing (“Tu chi sei voi chi siete chi siamo tutti” dice) e la vita reale che entra nell'ideale. In fondo, l’amore è davvero negli occhi di chi guarda e può scomparire con un gesto o una parola. Tra sagome animate così come tra noi mortali. 

1 da Wikipedia, https://it.wikipedia.org/wiki/Sindrome_di_Fregoli

mercoledì 10 febbraio 2016

[cinema] Di Tarantino, del Western e del Cinema. The Hateful Eight

San Remo, San Valentino, San Padre Pio. Nel dubbio questa settimana mi sono votata a San Quentin Tarantino (forse necessito di guida per riconoscere i miei santi, scusate la cit.).
Con la sua ottava pellicola il regista dei film più visionari, interessanti e discussi degli ultimi anni (decenni), ci regala un film spalmato sui 70mm che è innanzitutto omaggio visivo al genere western (senza dubbio tra i generi che possiamo considerare "padri fondatori" del cinema). A partire - ovviamente! - da Ombre Rosse: il viaggio della diligenza, i personaggi a bordo, persino nelle loro posture e nei campi e controcampi coi quali la mdp li filma, l'emporio/saloon di Minnie, le pistole e i cinturoni... il western perfetto e compiuto di John Ford è al contempo omaggiato e trattato con (rispettosa) ironia. D'altra parte si allude esplicitamente alle Ombre Rosse fordiane non solo con le immagini ma anche con i nomi (la città di Red Rock, la battaglia inventata di Baton Rouge) e con ogni minimo dettaglio, spesso rosso, che compare nel profilmico. Un riferimento che è più di omaggio; è la re-invenzione di un genere e di un mondo che Tarantino staglia sul bianco accecante di una distesa di neve infinita. Su quello spazio candido ri-scrive come su un foglio bianco il cinema, quel cinema alla base della sua vita da spettatore, e stavolta torna a farlo come non accadeva dai tempi de Le iene (per chi scrive, capolavoro insuperato del regista, almeno finora). Perché con The Hateful Eight ci troviamo di fronte a un cinema di sceneggiatura, fortemente scritto – non che i precedenti non lo fossero – dove le parole pronunciate dai personaggi e i loro dialoghi creano l’architettura del film, lo spazio e il tempo, dove la narrazione inventa la storia.
Sono i dialoghi e le parole a costruire e ad accompagnare lo sguardo su scene e personaggi che sono già icone e che pre-esistono al filmato, nonostante la loro identità labile (personaggi che fingono fino alla fine), incarnati dagli attori simbolo di Tarantino, da Samuel Jackson a Michael Madsen da Tim Roth a Jennifer Jason Leigh. Una fauna di impostori che si inventano, si nominano, si riconoscono e disconoscono a vicenda, per poi uccidersi l’un l’altro (con le parole e con fiumi di sangue rosso che li inondano e, ricoprendoli, scoprono forse i loro giochi).
In un andamento circolare al quale il cinema di Tarantino ci ha abituati e che – si percepisce fortemente – lo fa divertire come un matto. Come noi.     

The Hateful Eight - Quentin Tarantino
Ombre Rosse - John Ford