Un blog sul cinema. E tutto il resto

lunedì 21 novembre 2011

[cinema] Crialese e il cinema non-mediato: Respiro


Non ho mai ben capito se amo o meno il cinema di Emanuele Crialese. Quando ad esempio uscì Nuovomondo pensai “beh questo si è originale, forte” (ma ad onor del vero devo dire che a metà film pensai pure “che palle”, ma forse era un mio stato d’animo del momento…); è innegabile in ogni caso il suo talento di raccontare in modo interessante. Allo stesso tempo però risulta un regista urticante, fastidioso in qualche modo, direi a livello viscerale. Sabato hanno ritrasmesso Respiro, la sua pellicola con Valeria Golino, e ho capito fino in fondo il perché del “fastidio” che Crialese mi provoca (non solo a me credo, il suo approccio è certo intenzionale).

A parte gli argomenti, i personaggi e il modo narrativo di questo autore sui generis, quello che risulta disturbante a straniante a livello viscerale risiede senza dubbio in un’assenza, quella della mediazione.. Respiro – e il cinema di Crialese in genere – portano sulla pellicola la vita non mediata (e, aggiungerei, non mediatica), quella reale, viscerale e istintiva che per forza di cose colpisce ad altezza stomaco.

Una cifra che si riscontra nel linguaggio di questo film ma anche (e ancor più) nel filmato. I protagonisti non conoscono filtri nei loro rapporti, la loro vita è scandita dalla terra e dal mare in cui vivono, il loro tempo è quello di un pasto, dello spostamento in motorino da casa al mare o dell’attesa del marito che è fuori a pescare. La loro comunicazione, in un contesto se vogliamo verghiano, avviene attraverso il corpo: quello scabroso di Grazia (una Golino perfetta) che non sa piegare il suo essere al ruolo di madre tradizionale che la comunità vorrebbe, quello del figlio che subisce la punizione corporale per “dare soddisfazione” al padre del bambino offeso, quello ingombrante del marito, presenza-assenza che aleggia e pesa sulla famiglia.

È attraverso il corpo che si rivela il rapporto particolare ed esclusivo fra madre e figlio maggiore (scena clou: lui che le mette lo smalto ai piedi); è il corpo che provoca e imbarazza soprattutto le donne dell’isola, parenti incluse, che vogliono estrometterla cucendo su di lei una malattia come fosse un abito su misura. Ed è sempre il corpo (fatto tacere dalle iniezioni e dai sedativi) lo strumento attraverso cui la protagonista viene allontanata dal paese che – stretto nel suo tempo e nel suo spazio ancestrale – non può che rifiutare e allontanare da sé quella donna ingovernabile, bella e vitale che ha il potere di scardinare un mondo chiuso e impreparato.

lunedì 24 ottobre 2011

[cinema] Né con te né senza di te. Amore e morte nell’ultimo Truffaut


Eros e Thanatos, amore e morte. È il delicatissimo equilibrio tra queste due opposte ma ahimè complementari pulsioni – quella per la vita e quella per la morte – ad essere al centro de La Signora della Porta Accanto (“La femme d’à côtè”, 1981). Il film di François Truffaut (trasmesso qualche sera fa da La7… lode alla TV che fa queste scelte!) a distanza di trent’anni riesce fa ancora vibrare corde profonde nello spettatore che assiste all’amore impossibile, quell’amour fou che ritroviamo in altri suoi lavori come La peau douce o Jules et Jim. Ancora una volta il film del maestro della Nouvelle Vague, si costruisce attorno ai suoi personaggi che con le parole, i gesti, gli sguardi, creano il dramma e lo conducono dall’inizio alla fine. Mathilde e Bernard sono fatalmente attratti l’uno verso l’altra sin dal loro primo (re)incontro, quando – in una scena chiave ormai emblema della pellicola – un bacio fa svenire la bellissima e conturbante Mathilde/Fanny Ardant, mostrando la forza della passione (carnale e non) che li unisce; il primo di una serie di segni che la trascineranno in una vertigine sempre più incontrollabile, allontanando lei e il suo amante, incontro dopo incontro, dal loro mondo borghese e dalle loro famiglie per condurli inevitabilmente alla tragedia.
Perché un amore così (l’Amore) non può sublimarsi o trovare appagamento se non nel suo esatto contrario: la Morte.

venerdì 14 ottobre 2011

[cinema & memoria] Password e ritorni. Ovvero Almodovar, Drive e del cinema a fior di pelle

Questo blog è ancora vivo. Era la mia memoria ad aver perso colpi. E password. Non ricordavo più la pssw per accedere, quindi ho provato la domanda segreta (che non avevo impostato però), poi mi hanno mandato una nuova pssw a un indirizzo mail (che nemmeno ricordavo di avere) del quale naturalmente avevo dimenticato la parola per accedere (sempre la password cioè). Poi - attraverso un giro di 5 caselle di posta per le quali ho reimpostato ex novo sta cavolo di password - sono tornata in possesso del mio blog!
Ma, momenti da "Memento" a parte (tacinemanto per citare una pellicola), finalmente eccoci qua. E per dire che? Beh innanzitutto, per chiamare in causa due film che danno un senso alla nuova stagione cinematografica appena iniziata: La pelle che abito e Drive.
Se non l'avete ancora fatto, andateli a vedere.
Drive è stata una piacevole sorpresa, un film delicato e poetico che però fa bella mostra della violenza, dove l'amore - e ancor meglio la capacità di amare - affiorano come un bocciolo di rosa in un campo di sterco.
Ma soprattutto non perdete Almodovar; il suo ultimo film (come sempre ma ancor di più) non avrebbe potuto essere pensato, scritto e girato da nessun altro all'infuori di lui (che ne è consapevole firmando la sua pellicola solo con il cognome Almodovar, ormai segno e signature di un autore ma ancor di più di un cinema, il suo appunto).
La pelle del titolo è quello che ciascuno di noi abita, quella che ci mette in contatto col mondo e allo stesso tempo ci protegge da esso; una pelle che il chirurgo lavora e forgia così come il regista manipola la pellicola. Pelle e pellicola, "superfici" dove si scrive una storia, le emozioni e la nostra vita; pelle mutata e mutante che cela e disvela, che rappresenta il nostro aspetto ma che è anche la nostra percezione e il nostro sentire. E una pelle che per quanto modificata e plasmata non potrà mai contenere la nostra anima: come quella di Vera che fuoriesce dalla sua pelle (nella quale sembrava essersi adattata e assai bene) quando una foto le ricorda chi è e chi esiste dentro di lei.

giovedì 16 giugno 2011

A volte ritornano (il prequel)

Dopo il lungo periodo di assenza da queste pagine (ma sempre con lo sguardo allo schermo)... sto per tornare. Please wait!

martedì 25 gennaio 2011

[cinema] The killer inside me. Winterbottom e l’assassino


Michael Winterbottom è uno di quei registi che metterei nella categoria (che brutta espressione! sorry…) dei “potenziali autori”; nel senso che nel corso degli anni ha dimostrato più volte di saper tirare fuori dei buoni lavori ma che spesso non erano così buoni da farlo entrare nel novero dei registi a cinque stelle.

Anche per questo ultimo lavoro “The killer inside me” potremmo dire che c’è del buono ma la parte migliore non è stata sviluppata.

Il buono è nel personaggio principale e nella sua violenza che si scaglia, in modo che definirei tremendamente tranquillo, non su di un nemico o in risposta a una minaccia ma sulle persone che lo amano e che lui molto probabilmente ama (per lo più donne e amanti), nel fatto che il suo è un tendere alla morte attraverso l’uccisione degli altri e nel fatto che rende disgustoso il suo essere un tutore della legge e al contempo il primo ad infrangerla nel più turpe dei modi.

Però poi i nodi fondamentali della pellicole e della sceneggiatura vengono al pettine e lì restano perché non ci viene in nessun modo raccontato – ma meramente mostrato per associazione – come la madre masochista, il padre violento eccetera eccetera arrivino a creare la sua personalità tanto mostruosa quanto apparentemente banale, di uomo comune e mediocre…

Sarebbe stato interessante che il film prendesse una qualche piega nei momenti cruciali e li risolvesse; perché la violenza esce fuori e colpisce allo stomaco ma manca il resto.
Provaci ancora Mr Winterbottom…