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martedì 24 giugno 2008

[cinema] Ozu, Tokyo e Wenders. Il gesto cristallizzato del/nel cinema


Non sono ancora riuscita a vedere “E venne il giorno”, ma ce la farò! Nel frattempo oggi mi è capitato di rivedere in dvd “Tokyo-ga” di Wenders, un film-documentario che è un omaggio al grande regista Ozu ma allo stesso tempo è anche una sorta di caccia: all’immagine e all’essenza di una cultura.
Premesso che a mio parere Wenders è un buon regista di documentari, non altrettanto di altri generi, Tokyo-ga mi ha colpito per un motivo soprattutto.
Wenders, alla ricerca di quel Giappone filmato nel corso della sua carriera da Ozu e che pare non esserci più, ci mostra quanto il nostro sguardo - inteso come di noi contemporanei, soprattutto occidentali - sia incapace di vedere in modo “puro”, non mediato cioè dalle miriadi di immagini nelle quali siamo immersi.
Il documentario verte interamente su questa idea del vedere in modo mediato (mediatico?) e, potremmo dire in un certo modo, trasposto. Il regista parla di una altro regista e lo fa mostrando (in apertura e chiusura) le immagini di un suo film che guarda caso si intitola “Viaggio a Tokyo”.
Ozu viene narrato attraverso le parole del suo attore preferito e del suo direttore della fotografia, i treni presenti in ogni suo film sono rievocati dalle moderne metro che ne sono un’immagine futurista, mentre l’America arriva in Giappone attraverso la musica e le mode (i ragazzi che ballano vestiti da teddy boys riproducendo pedissequamente i movimenti visti al cinema e in tv) e dalla televisione, ormai ombelico del mondo per tutti a tutte le latitudini, come dichiara esplicitamente lo stesso regista.
Per tutto il film egli si (e ci) chiede se sia possibile ritrovare quel mondo descritto da Ozu, se si possano avere immagini trasparenti e pure come quelle che Herzog (che compare nel documentario) dichiara di cercare in tutti i modi e a tutti i costi in ogni film, anche salendo a 8000 metri di quota con la cinepresa se necessario.
L'impresa pare impossibile ma in realtà l’identità di una cultura - che per i giapponesi è forse espressa nell’arte della forma e della composizione - riesce ad emergere in qualche modo.
Nonostante l’invasione dell’America e del moderno, ciò che resiste è il gesto come simbolo di una identità che sopravvive; se è vero che si vedono gli abitanti di Tokyo frastornati da Disneyland e bersagliati dai talk show, si salva però qualcosa che va letto come una sorta di “resistenza”. Mentre giocano un assurdo golf sui tetti dei grattacieli non badano che la pallina vada in buca ma si concentrano sul movimento per colpirla, così come alla faccia del fast food, perdono ore a creare copie esatte in cera (da esporre in vetrina) dei piatti che i ristoranti cucinano. 
E in questo contesto, il gesto ostinato di un bambino che non vuole camminare e si ribella alla madre risulta vitale e liberatorio.

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